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La disciplina dei reati fallimentari nel Codice della crisi e dell’insolvenza è stata brillantemente affrontata dalla Corte di Cassazione nella sentenza 10.12.2019, n. 4772, ove la Suprema Corte ha affermato che le “nuove norme” appaiono in perfetta continuità normativa con le precedenti norme contenute del R.D. 16.03.1942, n. 267. Nel caso specifico, in particolare, era stata ascritta la violazione, in concorso con gli altri amministratori, dell’art. 223, c. 2, n. 1 L.F., in relazione all’art. 2621 C.C., avendo riportato, nei bilanci di esercizio della fallita del 2009, 2010 e 2011, fatti non corrispondenti al vero, occultando perdite tali da annullare il patrimonio netto e così cagionando il dissesto della stessa. La fattispecie è disciplinata dall’art. 223, “Fatti di bancarotta fraudolenta”, secondo cui si applicano le pene stabilite nell’art. 216 L.F. agli amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di società dichiarate fallite, i quali hanno commesso alcuno dei fatti preveduti nell’articolo. Si applica la pena prevista dall’art. 216, c. 1 L.F., se: 1) hanno cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società, commettendo alcuno dei fatti previsti dagli artt. 2621, 2622, 2626, 2627, 2628, 2629, 2632, 2633 e 2634 C.C.

Non diversamente, e anzi riproducendo la lettera della precedente norma, nel “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza” pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 14.02.2019, sotto l’identica rubrica “Fatti di bancarotta fraudolenta”, l’art. 329 prevede che: si applicano le pene stabilite nell’art. 322 (nei casi di “bancarotta fraudolenta” patrimoniale e documentale commessi dall’imprenditore dichiarato “in liquidazione giudiziale“, e, quindi, non più “fallito”) agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci e ai liquidatori di società in liquidazione giudiziale, i quali hanno commesso alcuno dei fatti preveduti nel suddetto articolo. Si applicano alle persone suddette la pena prevista dall’art. 322, c. 1, se: a) hanno cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società, commettendo alcuno dei fatti previsti dagli artt. 2621, 2622, 2626, 2627, 2628, 2629, 2632, 2633 e 2634 C.C.

Non vi è, pertanto, alcuna discontinuità del precetto penale (né la risposta sanzionatoria risulta diversa) che subentrerà all’attuale disciplina. Né, nell’odierna fattispecie, si è fatta questione circa l’applicabilità della, questa sì nuova, causa di non punibilità o, in alternativa (qualora non ricorra il danno di speciale tenuità), circostanza attenuante, previste dall’art. 25, c. 2, del Codice della crisi d’impresa, e peraltro riconducibili ad una iniziativa dell’imprenditore prevista solo dalle nuove norme.

Quanto alle modifiche introdotte nelle norme civilistiche che presiedono ai presupposti della liquidazione dell’impresa e alla procedura da seguire, prosegue la Suprema Corte, solo in minima parte già entrate in vigore, non si ravvisano elementi concreti tali da mutare il presupposto, l’insolvenza dell’impresa, su cui si fondano le norme penali, che, difatti, sono rimaste immutate, tranne nell’aggiornamento del lessico dei nuovi presupposti di applicabilità.

 

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