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Il riparto di giurisdizione in materia di sanzioni amministrative non pecuniarie 

di Antonella Manzione 

Sommario: Premessa. – 1. Il quadro normativo. – 2. La natura sanzionatoria di un provvedimento. -3. La decadenza. – 4. La stratificazione normativa in materia di occupazione di suolo pubblico. – 5. Le sanzioni di natura non pecuniaria – 6. La rimozione dell’occupazione di suolo pubblico nella normativa a tutela della sicurezza della città. – 7. Problematiche di ne bis in idem. – Conclusioni.   

Premessa. 

La tematica del riparto di giurisdizione in materia di sanzioni amministrative non pecuniarie costituisce una delle questioni più dibattute nell’ambito del c.d. diritto punitivo, malgrado l’apparente chiarezza della norma che da tempo ne declina in maniera esplicita i confini. L’art. 6 del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, infatti, nel riprendere l’elencazione delle materie per le quali la sanzione è opponibile al tribunale civile, per lo più già contenuta nell’art. 22-bis della l. 24 novembre 1981, n. 689, contestualmente riscrivendone l’art. 22, continua a demandare all’interprete sia il compito di tracciare l’esatto confine della natura sanzionatoria del provvedimento, sia quello, ancor più arduo, di collocarne con precisione il regime delle tutele laddove lo stesso sia intervenuto autonomamente, quale unico rimedio avverso il comportamento del destinatario ovvero in aggiunta ad altro, di natura pecuniaria o meno, finanche a carattere penale.

La lacuna di disciplina che interessa le sanzioni non pecuniarie, infatti, accessorie o meno, consegue alla formulazione letterale della richiamata l. 24 novembre 1981, n. 689, ambiziosamente riferita dal legislatore dell’epoca a tutto l’illecito amministrativo, ma letteralmente riferibile solo a quello conseguito al corposo intervento di decriminalizzazione di originarie fattispecie di reato operato dalla stessa.  

Il successivo sviluppo delle legislazioni speciali ha determinato poi il proliferare di rimedi alternativi, aggiuntivi o meno, al pagamento di una somma di danaro per lo più ricompresa in una forbice edittale predeterminata, di ancor più difficile inquadramento proprio in ragione del loro “reagire” ad un comportamento lato sensu illecito sostanzialmente identico, seppure astrattamente lesivo di una pluralità di interessi pubblici diversi. Ciò chiama in causa l’ulteriore tematica, alternativa a quella del concorso formale di illeciti e del relativo regime, del rispetto del principio del ne bis in idem, a maggior ragione laddove il provvedimento limitativo dell’altrui sfera giuridica sopraggiunga a distanza di tempo dalla commissione del presunto illecito, con riferimento al quale sono già stati adottati altre e più tempestive misure, con quanto ne consegue in termini di potenziale pregiudizio del diritto di difesa. In taluni casi addirittura il contenuto della “sanzione” o comunque la si voglia denominare, si palesa esso stesso identico, tanto da rendere difficile l’individuazione del procedimento da seguire, spesso rimessa alla scelta discrezionale dell’Amministrazione procedente, in una logica di ricercata efficacia del provvedimento, ovvero, al contrario, di diluizione dei suoi tempi di attuazione.  

Le esigenze di semplificazione da sempre invocate in primo luogo a livello di riduzione delle fonti non può non passare dunque dalla razionalizzazione delle stesse anche con riferimento alla fase per così dire patologica delle reazioni dell’ordinamento a condotte ritenute “scorrette” degli operatori economici, a maggior ragione laddove le stesse si risolvano in provvedimenti ablatori o interdittivi della relativa attività. Speculari cioè alle lamentate difficoltà di avvio di un’attività produttiva correlate alla proliferazione dei titoli di legittimazione, e tuttavia meno scrutinate dall’interprete, si palesano infatti quelle riconducibili alla pluralità dei “rimedi” a fronte di accertate violazioni delle singole discipline di settore. Emblematico al riguardo il tentativo di imporre a livello normativo un coordinamento delle attività di controllo, essendo indubbio il danno all’attività economica, finanche in termini di immagine e tutela dell’avviamento, riconducibile alla loro atomistica reiterazione. Con l’art. 14 del d.l.9 febbraio 2012, n.5, convertito, con modificazione, dalla l. 4 aprile 2012, n. 35, recante «Semplificazione dei controlli sulle imprese», vennero dunque individuati i criteri ispiratori comuni all’attività di vigilanza, statuendo che «fermo quanto previsto dalla normativa dell’Unione   europea», essa si attenga «ai principi della semplicità, della proporzionalità dei controlli stessi e dei relativi adempimenti burocratici alla effettiva tutela del rischio, nonché del coordinamento  dell’azione svolta dalle amministrazioni statali, regionali e locali» (comma 1), demandandone la concreta declinazione ad apposite Linee guida, da adottare in sede di conferenza unificata per quanto attiene agli enti locali. La mancanza di sanzioni ovvero di qualsivoglia tipologia di deterrenza o, al contrario, di incentivo al coordinamento, ha fatto sì che l’intento sia rimasto sostanzialmente sulla carta, dopo che peraltro ciascuna amministrazione aveva tentato in via ermeneutica di svuotare la portata precettiva della norma in difesa della rivendicata specificità di competenze connotante l’intervento di ogni singola forza di polizia. 

1. Il quadro normativo. 

La cornice normativa in materia di riparto di competenze giurisdizionali sulle sanzioni è dunque oggi contenuta nel d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150, recante «Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69». In particolare, l’art. 34 ha riscritto l’art. 22, comma 1, della l. 24 novembre 1981, n. 689, abrogando gli ulteriori commi della norma, nonché l’art. 22-bis, che era stato introdotto dal d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507, così da adeguare il sistema all’avvenuta soppressione della figura del pretore, cui la normativa originaria faceva necessariamente riferimento. Con l’art. 6 del d.lgs. n. 150/2011, dunque, è stata ripresa la ripartizione di competenze contenuta nell’art. 22-bis della l. n. 689/1981 tra giudice di pace e tribunale in composizione monocratica, cui ci si rivolge in opposizione all’ordinanza-ingiunzione secondo le regole del rito del lavoro. Da un lato, quindi, il novellato art. 22 continua a rappresentare la norma cardine all’interno della legge sull’illecito amministrativo, con un’attribuzione in termini generali della competenza a conoscere delle sanzioni amministrative pecuniarie e della confisca al giudice ordinario, fatti salvi i casi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 133 del c.p.a. nel frattempo approvato; dall’altro, il nuovo art. 6 del d.lgs. n. 150 del 2011, cui l’art. 22 della l. n. 689/1981 fa espresso rinvio, in una cornice sistematica più ampia, si appropria della precedente ripartizione tra tribunale e giudice di pace, estendendola a qualsivoglia sanzione, anche chiaramente estranea al contesto di decriminalizzazione, replicando la metodica dell’elencazione analitica dei soli casi di spettanza del primo, con individuazione in via residuale di quelli attribuiti all’altro. In maggior dettaglio, rispetto al previgente art. 22-bis della l. n. 689 del 1981, che operava il medesimo distinguo, l’art. 6 del d.lgs. n. 150 del 2011 elimina alcune materie. Spiccano, per il tema odierno, l’urbanistica ed edilizia (lett. c), ma anche società e intermediari finanziari (lett. f), nonché il diritto tributario (lett. g, prima parte). Si ritiene di poter escludere che si tratti di una dimenticanza del legislatore, poiché dal combinato disposto delle norme citate si evince chiaramente, ad esempio, che con riferimento alle espunte sanzioni in materia urbanistico-edilizia si è inteso fare espresso riferimento con la clausola di salvaguardia della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo contenuta nell’art. 22 della l. n. 689 del 1981. E’ indubbio quindi, ad esempio, che le sanzioni amministrative previste dal d.P.R. n. 380 del 2001 (si pensi a quanto previsto dagli artt. 24 in materia di agibilità, 31, comma 4-bis, per il caso di inottemperanza all’ingiunzione a demolire un abuso edilizio, 37, per gli interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla s.c.i.a.), rientrando nella materia edilizia ed urbanistica in quanto ulteriore strumento afflittivo per la tutela dell’ordinato sviluppo del territorio, sono soggette alla giurisdizione del giudice amministrativo.

2. La natura sanzionatoria di un provvedimento.  

La disciplina del c.d. diritto punitivo amministrativo o, secondo altra denominazione, del diritto penale amministrativo, distinto dal diritto amministrativo della prevenzione e da quello disciplinare, ha trovato nella l. 24 novembre 1981, n. 689 una sua prima organica razionalizzazione, sia sostanziale che processuale. Tuttavia l’art.12 della stessa, concernente il relativo ambito di applicazione, include nel proprio perimetro solo le sanzioni (e conseguentemente, gli illeciti puniti con le stesse) pecuniarie, con ciò rischiando di svuotare sensibilmente la portata della riforma, finalizzata anche a dar vita ad un vero e proprio “codice” dell’illecito amministrativo. 

La dottrina pressoché unanime ha tentato da subito in vario modo di svalutare la portata delimitatrice dell’art. 12, seppur di difficile lettura, sottolineandone la pluralità di interpretazioni possibili, per addivenire ad una diversa ricostruzione in via interpretativa della rilevanza ratione obiecti della legge. 

In particolare, si sono individuati all’interno dell’articolato normativo tre nuclei fondamentali: a) i principi in materia di tutela giurisdizionale (originariamente contenuti negli artt. 22-25, oggi riconducibili, come sopra detto, all’art. 6 del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, che si occupa in maniera esplicita anche delle sanzioni non pecuniarie; b) i principi sul procedimento (artt. 13-21); c) i principi sostanziali sull’illecito e la sanzione. Mentre le regole procedimentali, con l’esclusione secondo taluni dell’art. 13, invocato come modello generale per ogni caso di applicazione di una sanzione amministrativa, paiono attagliarsi solo a quelle pecuniarie; quelle sostanziali, pur con talune eccezioni (si pensi alla previsione della forbice edittale di cui all’art. 10 ovvero alle regole sulla prescrizione, che peraltro sono collocate nella sez. II del capo I, all’art. 28), non possono non trovare applicazione ad ogni sanzione amministrativa in senso stretto, ancorché non pecuniaria. La giurisprudenza amministrativa ha da subito ricondotto alle norme di principio anche quelle procedurali relative all’immediatezza della contestazione o comunque ad una non irragionevole dilatazione dei suoi tempi. Ciò riconoscendo quale intento del Legislatore «quello di assoggettare ad un statuto unico ed esaustivo (e con un medesimo livello di prerogative e garanzie procedimentali per il soggetto inciso) tutte le ipotesi di sanzioni amministrative, sia che siano attinenti a reati depenalizzati sia che conseguano ad illeciti qualificati “ab origine” come amministrativi, con la sola eccezione delle violazioni disciplinari e di quelle comportanti sanzioni non pecuniarie». La preventiva comunicazione e descrizione sommaria del fatto contestato con l’indicazione delle circostanze di tempo e di luogo (idonee ad assicurare, già nella fase del procedimento amministrativo anteriore all’emissione dell’ordinanza-ingiunzione, la tempestiva difesa dell’interessato), viene ricondotta ai principi del contraddittorio, e per tale ragione si ritiene pacificamente che il termine per la contestazione delle violazioni amministrative abbia natura perentoria. 

La l. n. 689/1981, dunque, finisce per avere un ambito di applicazione elastico, in quanto investe un genus di sanzioni (principalmente, ma non esclusivamente pecuniarie) comprensivo di una pluralità di species, solo in alcuni casi dotate di una disciplina speciale (si pensi, ad esempio, alle già ricordate sanzioni pecuniarie in senso stretto in materia urbanistico-edilizia).

Una lettura sistematica e costituzionalmente orientata, non può tuttavia non condurre all’estensione applicativa dei principi fondamentali di cui agli artt. 1, 2, 3 e 4 della l. 689/1981 ad ogni sanzione amministrativa in senso stretto e quindi ad ogni illecito amministrativo, anche se la sanzione prevista non è pecuniaria. Restano fuori dall’applicabilità degli stessi solo quei provvedimenti che, seppur pregiudizievoli per il destinatario, assumono carattere primariamente riparatorio, tra i quali, come è evidente, non può rientrare la chiusura temporanea di un’attività commerciale quale conseguenza (ulteriore) dell’avvenuto accertamento della commissione al suo interno di specifiche ipotesi di illecito, anche penale. Solo integrando, pertanto, il dato testuale dell’art. 12 con considerazioni ispirate in ambito sanzionatorio ad ineludibili esigenze di garanzia, emerge chiaramente tutta l’importanza di sistema dei principi sostanziali e procedimentali fissati nella l. n. 689/1981, intorno alla quale è possibile costruire l’edificio della repressione amministrativa.

La problematica sopra delineata vale, ovviamente, per le sanzioni diverse da quelle pecuniarie, vuoi che le si possa qualificare come “accessorie” ad altre, di regola consistenti nel pagamento di una somma di danaro, ma talvolta anche di natura penale; vuoi che intervengano in via autonoma. 

La l. n. 689/1981 si occupa delle cd. Sanzioni “accessorie” diverse dalla confisca all’art. 20, prevedendone la possibile applicazione da parte dell’autorità amministrativa competente qualora esse già conseguissero al reato soggetto a depenalizzazione ad opera della medesima legge. Anche in questo caso, dunque, il dato letterale è legato al contesto di generalizzata decriminalizzazione di precedenti illeciti operata dalla normativa sulla base della tipologia di pena per gli stessi prevista. Sotto tale profilo, quindi, solo nel caso in cui un reato, divenuto illecito amministrativo, già prevedesse l’applicazione, in via accessoria, di sanzioni consistenti nella privazione o sospensione di diritti e facoltà derivanti da provvedimenti dell’amministrazione, esse possono facoltativamente essere applicate dall’amministrazione con l’ordinanza ingiunzione che commina anche la sanzione amministrativa pecuniaria.

La lacunosità del riferimento letterale spiega dunque il tentativo di alcuni autori di sottrarre dall’ambito sanzionatorio le misure consistenti nella privazione o nella sospensione di diritti e facoltà (le sanzioni interdittive, appunto) che non siano accessorie rispetto ad un illecito amministrativo da depenalizzazione, individuandone la ratio nella protezione e realizzazione diretta degli interessi dell’Amministrazione in quanto permetterebbero l’ “interdizione” di un soggetto o di una sua attività in ragione della ritenuta inidoneità a soddisfarli, avuto riguardo alla condotta preventivamente tenuta

L’art. 20, co.2, della l. 689/1981 prevede che le sanzioni accessorie ad una sanzione amministrativa pecuniaria non siano applicabili – rectius, esecutive – fino a che sia pendente il giudizio di opposizione contro il provvedimento di condanna o, nel caso di connessione con un reato, fino a che il provvedimento stesso non sia divenuto esecutivo. Ciò da un lato ne conferma la natura afflittiva e la funzione deterrente, dall’altro evidenzia l’attenzione del legislatore al principio – sebbene fortemente temperato- di colpevolezza del destinatario del provvedimento. L’applicazione della sanzione accessoria, infatti, avviene, almeno di regola solo al momento in cui il soggetto è riconosciuto responsabile, a seguito di un giudizio a cognizione piena, della violazione amministrativa.

La normativa consente invece l’immediata esecuzione della sanzione pecuniaria, che per la sua fungibilità comporta effetti pregiudizievoli più facilmente rimediabili, nonché, si ritiene, delle sanzioni amministrative non pecuniarie autonome, quanto meno in assenza di un’esplicita deroga di legge. Per contro, proprio nell’immediatezza del rimedio può ravvisarsi un indice della sua natura cautelare o riparatoria, giusta la necessità, cui esso fa fronte, di cauterizzare nel più breve tempo possibile la lesione che l’ordinamento giuridico ha subito a causa del comportamento del presunto trasgressore.  

La natura sanzionatoria di un provvedimento va ricercata anche nei confini delineati dal diritto europeo. La Corte di Strasburgo ha infatti elaborato propri e autonomi criteri (i notissimi cd. Engel criteria) al fine di stabilire la portata “penale” o meno di un illecito e della relativa sanzione, laddove il relativo termine ha una connotazione diversa rispetto a quella attinta dal diritto nazionale. A ciò consegue che essi non si risolvono affatto in un’indebita ingerenza nella scelta di politica criminale tra qualificazione di un fatto illecito come amministrativo o penale, rimessa al legislatore nazionale (di particolare interesse il dialogo tra le Corti sviluppatosi al riguardo in tema di confisca, quale tipica sanzione amministrativa accessoria al reato di lottizzazione abusiva, su cui v. da ultimo Corte Cost., 26 marzo 2015, n. 49). Ma impongono una valutazione estensiva del concetto per non sottrarre l’applicazione di vere e proprie “sanzioni” ad ineludibili requisiti sostanziali, prima ancora che a precise garanzie procedurali.

Perché possa parlarsi di sanzione “sostanzialmente penale”, dunque, i requisiti vanno ricercati: nella qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale, con la puntualizzazione che la stessa non è vincolante quando si accerta comunque la valenza “intrinsecamente penale” della misura; nella natura dell’illecito, desunta dall’ambito di applicazione della norma che lo prevede e dallo scopo perseguito; nel grado di severità della sanzione (sentenze 4 marzo 2014, r. n. 18640/10, resa nella causa Grande Stevens e altri c. Italia; 10 febbraio 2009, ric. n. 1439/03, resa nella causa Zolotoukhine c. Russia; si v. anche Corte di giustizia UE, Grande sezione, 5 giugno 2012, n. 489, nella causa C-489/10), che è determinato con riguardo alla pena massima prevista dalla legge applicabile e non a quella concretamente applicata. La Corte EDU, dunque, per evitare la c.d. “truffa delle etichette”, impone di guardare al di là dell’inquadramento formale e ricercare la «realtà della procedura in questione» (Corte EDU, 27 febbraio 1980, caso 6903/75, Deweer v. Belgium, par. 44). In tale ottica, assume rilievo la circostanza che la previsione sanzionatoria si rivolga ad una generalità di soggetti –il che è escluso, ad esempio, per la sanzione disciplinare- e che abbia un contenuto afflittivo e una funzione deterrente, requisiti questi che secondo la costante giurisprudenza di Strasburgo sono tra loro alternativi e non cumulativi. Sicché, da un lato, la gravità (severità) può non rilevare, ove la  sanzione abbia in sé stessa una inequivoca funzione deterrente e punitiva; dall’altro, entro certi limiti, anche una misura nella quale il carattere afflittivo non sia prevalente (o addirittura manchi), ma che comporti conseguenze di una certa gravità per il destinatario, può essere considerata di natura penale e, quindi, rientrare nel perimetro di applicazione dell’art. 6 CEDU, che costituisce la cartina di tornasole alla stregua della quale è stata evidentemente delineata la cornice sopra tratteggiata. Pertanto, anche provvedimenti di carattere interdittivo o ripristinatorio comunemente ritenuti espressione di un generico potere ablatorio possono, a certe condizioni, ricadere nella nozione di «accusa penale» di cui a ridetto art. 6 della Carta EDU (Corte EDU, 24 aprile 2012, caso n. 1051/06, Mihai Toma v. Romania, par. 26; id., 30 maggio 2006, caso n. 38184/03, Matyjec v. Polland, par. 58).

Di particolare sensibilità il tema della necessità dell’elemento psicologico dell’illecito, ovvero della necessaria colpevolezza del suo autore o comunque del soggetto individuato come destinatario della sanzione, affinché la stessa possa essergli legittimamente imposta. 

La questione ha assunto un notevole rilievo ancora una volta in materia di illecito urbanistico-edilizio, con riferimento in particolare alla confisca quale conseguenza della lottizzazione abusiva, ma non solo. 

Attingendo ancora ai suggerimenti della Corte EDU riferiti, questa volta, all’art. 7 della Convenzione, va ricordato come pronunciandosi sull’affaire di Punta Perotti, si sia fatta leva sulla presenza del sintagma «persona colpevole» nelle versioni inglese e francese della norma per richiedere comunque un criterio d’imputabilità soggettiva dell’illecito laddove soggetto a sanzione penale (Corte EDU, sez. II, 20 gennaio 2009, caso n. 75909/01, Sud Fondi s.r.l. e altri c. Italia, par. 116). 

La natura “reale” delle sanzioni amministrative edilizieha tuttavia portato la giurisprudenza nazionale a prescindere dallo scrutinio dell’elemento psicologico, ritenendo, ad esempio, che la fattispecie di lottizzazione abusiva rilevi in modo oggettivo e indipendentemente dall’animus dei proprietari interessati, i quali, sussistendone i presupposti, potranno far valere la propria buona fede nei rapporti interni e di natura civilistica con i propri danti causa (cfr., ex multis Cons. Stato, sez. II, 24 giugno 2019, n. 4320). Si è così arrivati a distinguere sul piano sistematico tra ablazione della proprietà che consegua alla decisione del giudice penale ovvero ai provvedimenti dell’autorità comunale, relegando l’applicazione dei principi costituzionali e sovranazionali di buona fede e di presunzione di non colpevolezza invocabili dai trasgressori allo scopo di censurare un asserito deficit istruttorio e motivazionale consistente nell’omessa individuazione dell’elemento psicologico dell’illecito contestato solo alla prima, ovvero all’applicazione della sanzione penale accessoria della confisca urbanistica contemplata dall’art. 44 del d.P.R. n. 380/2001 (che in base alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Chambre, 28 giugno 2018, n. 1828 viene ritenuta in ogni modo compatibile con l’art. 7 CEDU). L’argomento medesimo non è stato invece ritenuto utilmente invocabile al fine dell’irrogazione della sanzione ammnistrativa dell’acquisizione coattiva dell’immobile al patrimonio del Comune, contemplata dall’art. 30, comma 1 e 8, ovvero dall’art. 31 del medesimo T.U.E., in quanto atti vincolati. I profili sollevati riguardano le garanzie inerenti alla titolarità del diritto di proprietà e, in particolare, all’aspetto dell’acquisizione della titolarità delle aree dei privati in capo all’Amministrazione quale conseguenza delle misure sanzionatorie previste dall’art. 30, comma 1 ed 8, del D.P.R. n. 380/2001, con un effetto sostanzialmente espropriativo per il proprietario inciso. La Corte Costituzionale con sentenza 24 luglio 2009, n. 239 (riguardante la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 44, co. 2, del medesimo d.P.R. n. 380/2001, sollevata in riferimento agli art. 3, 25, comma 2, e 27, comma 1, della Costituzione, nonché ai principi dettati dalla CEDU, nella parte in cui la norma impone al giudice penale, in presenza di accertata lottizzazione abusiva, di disporre la confisca dei terreni e delle opere abusivamente costruite anche a prescindere dal giudizio di responsabilità e nei confronti di persone estranee ai fatti) ha dichiarato l’inammissibilità della questione anche sotto il profilo dell’omissione da parte del giudice a quo della sperimentazione della possibilità di un’interpretazione conforme alla disposizione internazionale, quale interpretata dalla predetta Corte europea dei diritti dell’uomo. Spetta infatti «agli organi giurisdizionali comuni l’eventuale opera interpretativa dell’art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 che sia resa effettivamente necessaria dalle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo; a tale compito, infatti, già ha atteso la giurisprudenza di legittimità, con esiti la cui valutazione non è ora rimessa a questa Corte. Solo ove l’adeguamento interpretativo, che appaia necessitato, risulti impossibile o l’eventuale diritto vivente che si formi in materia faccia sorgere dubbi sulla sua legittimità costituzionale, questa Corte potrà essere chiamata ad affrontare il problema della asserita incostituzionalità della disposizione di legge»

Non osta, dunque, al disposto della norma in questione un’interpretazione che tenga conto, in linea con i principi enunciati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, dei profili soggettivi di assenza di colpa e buona fede, che, anzi, si impone alla luce della natura di sanzione amministrativa della misura acquisitiva prevista dai suddetti comma in quanto nelle violazioni cui è applicabile una sanzione amministrativa ciascuno è responsabile della propria azione o omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa. 

A ben guardare in effetti mentre l’accertamento dell’ipotesi di reato, nella sua forma materiale o negoziale, presuppone necessariamente la prova dell’elemento psicologico, l’acquisizione al patrimonio del Comune consegue al decorso di 90 giorni senza avere ottemperato all’ingiunzione di sospensione dei lavori, evidentemente ancora in corso, ovvero di non cedere il bene con atto tra vivi. 

L’indifferenza in ordine alla sussistenza o meno di un comportamento colposo è stata interpretata nel senso di porre una presunzione iuris tantum di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che l’abbia commesso, spettando allo stesso l’onere della prova della propria incolpevolezza.  L’aspetto relativo alla necessità della sussistenza di un elemento soggettivo, quale indice di rimproverabilità, può recedere dinanzi alla funzione concretamente ripristinatoria della sanzione che in quanto tale «ha l’attitudine di imporsi, per il suo carattere reale, anche nei confronti di soggetti in stato di incolpevole buona fede, in quanto misura necessaria al ripristino del bene. In base a tale interpretazione, che tiene conto del profilo soggettivo di responsabilità nella condotta, la sanzione acquisitiva di cui all’art. 30 (commi 1, 7 e 8) si palesa in linea con i principi espressi dalla Corte di Strasburgo ed a quest’ultimo riguardo, il dovere di dare all’ordinamento interno una interpretazione conforme alla CEDU, come esplicitata dalla Corte di Strasburgo, deriva dall’art. 117 Cost., comma 1, ed è stato affermato in modo generale dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 348 e 349 del 2007 e, con riferimento specifico al citato art. 44, comma 2, con la sentenza 24 luglio 2009 n. 239» (v. Cons. Stato, sez. VI, 4 novembre 2021, n. 7380). 

3. La decadenza.

Con il termine “decadenza” si può intendere sia un provvedimento di natura sanzionatoria, sia più in generale un atto di esercizio del potere di autotutela, sia un distinto istituto di natura rimediale che fa cessare gli effetti dell’atto precedente con effetto ex nunc o per il venir meno dei requisiti di idoneità per la costituzione e la continuazione del rapporto, o per inadempimento di obblighi imposti dal provvedimento o per mancato esercizio per un determinato periodo di tempo delle facoltà che derivano dallo stesso.  

La distinzione ha trovato implicita consacrazione nelle affermazioni dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato che ha così perimetrato “in negativo”, evidenziando gli elementi di affinità e quelli di divergenza, il  provvedimento con il quale il Gestore Servizi Energetici (GSE), a conclusione di un procedimento di verifica condotto ai sensi dell’art. 42 del d.lgs. n. 28 del 2011 e del D.M. 31 gennaio 2014 in relazione ad un impianto fotovoltaico, ha dichiarato la decadenza, appunto, dal diritto alle tariffe incentivanti fruite da un operatore economico, con conseguente recupero integrale degli incentivi percepiti. Ciò essendo emerso nel caso di specie dall’istruttoria, con riferimento all’attestazione dell’origine dei pannelli fotovoltaici, che era stato presentato un documento (Factory Inspection Attestation) non conforme a quello che lo stesso ente aveva originariamente emesso. Secondo l’Adunanza plenaria, dunque, la decadenza, intesa quale vicenda pubblicistica estintiva, «ex tunc (o in alcuni casi ex nunc)», di una posizione giuridica di vantaggio (c.d. beneficio) se rientra nell’esercizio dell’autotutela, si connota per la sottoposizione ai presupposti, condizioni ed effetti statuiti a livello generale dall’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990; se ha carattere sanzionatorio, richiede l’elemento soggettivo del dolo o della colpa e l’effetto ablatorio prodotto al massimo coincide con l’utilità concessa attraverso il pregresso provvedimento ampliativo sul quale viene ad incidere; se istituto autonomo (quale ritenuto quello in esame non presenta alcun tratto comune con il diverso istituto della sanzione, della quale non condivide i due richiamati requisiti, ma «pur presentando tratti comuni col più ampio genus dell’autotutela, ne deve essere opportunamente differenziato, caratterizzandosi specificatamente: a) per l’espressa e specifica previsione, da parte della legge, non sussistendo, in materia di decadenza, una norma generale quale quelle prevista dall’art. 21 nonies della legge 241/90 […];b) per la tipologia del vizio, more solito individuato nella falsità o non veridicità degli stati e delle condizioni dichiarate dall’istante, o nella violazione di prescrizioni amministrative ritenute essenziali per il perdurante godimento dei benefici, ovvero, ancora, nel venir meno dei requisiti di idoneità per la costituzione e la continuazione del rapporto; c) per il carattere vincolato del potere, una volta accertato il ricorrere dei presupposti;[…]»La giurisprudenza ha già avuto modo di confermare tale distinzione tra decadenza e autotutela avuto riguardo ai provvedimenti del G.S.E. anche dopo la modifica dell’art. 42, comma 3, d.lgs. 28/2011 introdotta dall’art. 56, comma 8, del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 settembre 2020, n. 120, il quale ha esteso alla prima i presupposti di cui all’art. 21 nonies l. 241/1990, anche allo scopo di circoscriverne nel tempo l’irrogazione, ma non ha mutato la natura del potere (che rimane di decadenza), né il carattere vincolato dello stesso. La titolarità del potere di verifica e controllo, pertanto, non consente l’indiscriminata rimessa in discussione dei presupposti iniziali, senza il rispetto delle necessarie garanzie e degli affidamenti in capo alle imprese direttamente coinvolte, in quanto una volta che il procedimento si è concluso con il vaglio positivo degli elementi forniti dal privato, il riesame dei medesimi elementi deve seguire i canoni ed i presupposti del potere di autotutela, sotto tutti i punti di vista. Ne discende che «anche l’esercizio di poteri di revisione del precedente assenso regolatorio debbano essere esercitati nel rispetto dei principi dettati, in generale per le tradizionali autorità, con riferimento al potere di autotutela. Ciò non solo con riferimento al formale rispetto dei presupposti, ma anche relativamente alla verifica istruttoria e motivazionale degli elementi forniti dai soggetti passivi, sia in relazione ai presupposti iniziali sia rispetto alle alternative che le stesse società avrebbero potuto perseguire, in specie dinanzi al mutamento di interpretazione dell’autorità». (Cons. Stato, sez. VI, 29 luglio 2019, n. 5324, nonché, più di recente, sez. II, 17 giugno 2022, n. 4983). Sotto il profilo del regime delle tutele non si pongono a tale riguardo particolari problematiche giusta la riconducibilità della materia ad una di quelle di competenza esclusiva del giudice amministrativo. 

Ma traslando le relative affermazioni al più generale quadro delle decadenze previste nell’ordinamento, si viene così ad imporre all’interprete un distinguo, appunto, su funzione “punitiva” della stessa e funzione meramente ripristinatoria, di non sempre agevole individuazione. 

A titolo di esempio, la previsione nominativa, nonché la finalità di tutela di prescrizioni amministrative imposte dalla legge per giustificare il perdurante godimento del beneficio  parrebbe attrarre nella sfera di competenza del giudice amministrativo la decadenza di cui all’art. 29 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114 (a vario titolo riprodotta nelle discipline regionali di settore) che consegue al mancato utilizzo del posteggio in concessione per un lasso di tempo predeterminato. Né pare condurre a soluzione opposta la circostanza che della stessa si faccia menzione in una norma rubricata “sanzioni”, stante che la sanzione ivi prevista consegue alla decadenza (revoca del titolo), laddove la stessa, proprio in quanto non sanzionatoria, non consente giustificazioni alternative rispetto a quelle tassativamente individuate dal legislatore (malattia, gravidanza e servizio militare). 

4. La stratificazione normativa in materia di occupazione di suolo pubblico.   

Il “suolo pubblico” è quella porzione di territorio non coperta da edificazioni suscettibile di occupazione per varie finalità, per lo più economiche, previa concessione o autorizzazione da parte dell’Ente proprietario. Trattandosi per lo più di strade o piazze, esso è riconducibile alla nozione di demanio stradale, la cui disciplina è rinvenibile ancora oggi negli artt. 822 e 824 c.c., a seconda che appartengano allo Stato, ovvero a Province e Comuni. La richiamata sistematica ha assunto oggi connotazioni più sfumate, laddove il suolo (e più in generale il bene pubblico) sia utilizzato da una specifica collettività, sì da essere ancorato alla tutela dell’interesse pubblico che fa capo alla stessa. Emblematica al riguardo la vicenda giuridica delle lagune venete, che non solo in quanto non  menzionate come tali nell’elencazione dei beni demaniali (che contempla spiagge, rade dei porti, lidi) sono state ricondotte alla più moderna dizione di “bene comune” da due ormai famose sentenze “gemelle” della Corte di Cassazione, che hanno fornito lo spunto per lo sviluppo di una teoria giuseconomica della proprietà pubblica laddove affermano che «il solo aspetto della demanialità non appare esaustivo per individuare beni che, per loro intrinseca natura, o sono caratterizzati da un godimento collettivo o [..] risultano funzionali ad interessi della stessa collettività», di fatto valorizzando l’utilizzo, piuttosto che la titolarità .

Ciò ha consentito nel tempo la valorizzazione di istituti, quali il c.d. ‘baratto amministrativo”, che fondano il rapporto sinallagmatico tra privato e pubblica amministrazione proprio sul coinvolgimento dei cittadini, singoli o associati, nella gestione del “bene comune”, in un’ottica di recupero di contenitori degradati, politiche di sicurezza delle periferie, ovvero più semplicemente perequazione tra diretta presa in carico di servizi pubblici, quali il mantenimento del verde o la pulizia e assunzione dell’onere economico degli stessi

La fruizione del suolo pubblico, sottraendolo all’uso della collettività, è soggetta a concessione, per l’attribuzione della quale operano i principi di evidenza pubblica come ormai definitivamente chiarito nell’organica evoluzione normativa, dottrinaria e giurisprudenziale della materia, diretta a ricondurre l’attribuzione di tutte tali fattispecie al rispetto dei principi di matrice comunitaria di imparzialità e di trasparenza. In sintesi, pur avendo avuto la vicenda minore risonanza, anche mediatica, le medesime affermazioni riferite alla sottrazione all’uso collettivo di aree del demanio marittimo si attagliano anche alla mera concessione di “preselle” di suolo pubblico (posteggi e simili), tanto che l’affermazione della diretta applicabilità dei principi eurounitari da parte anche del singolo funzionario chiamato a gestire la normativa di settore ha da tempo determinato la preoccupazione degli operatori economici e l’inerzia degli uffici comunali competenti. Non a caso, nel parere  espresso dall’AGCOM in sede di audizione parlamentare, si richiamano la giurisprudenza nazionale e comunitaria in materia di concessioni demaniali marittime per evocarne i principi anche con riferimento alle concessioni per l’esercizio del commercio su aree pubbliche. La materia peraltro è stata ulteriormente complicata dal fatto che in alcune Regioni molti Comuni hanno comunque provveduto ai rinnovi delle concessioni in base alla legislazione in vigore, “sfruttando” le norme emergenziali relative all’epidemia da Covid-19 che consentono la conclusione dei procedimenti entro novanta giorni dalla cessazione dello stato di emergenza. Quanto detto mentre cominciano a farsi strada le prime sentenze nelle quali si riconosce espressamente la riferibilità della disciplina comunitaria al settore del commercio in aree pubbliche sulla base del percorso argomentativo dell’Adunanza Plenaria laddove afferma che «la tutela della concorrenza (e l’obbligo di evidenza pubblica che esso implica) è, d’altronde, una “materia” trasversale, che attraversa anche quei settori in cui l’Unione europea è priva di ogni tipo di competenza o ha solo una competenza di “sostegno”: anche in tali settori, quando acquisiscono risorse strumentali all’esercizio delle relative attività (o quando concedono il diritto di sfruttare economicamente risorse naturali limitate), gli Stati membri sono tenuti all’obbligo della gara, che si pone a monte dell’attività poi svolta in quella materia. Altrimenti, si dovrebbe paradossalmente ritenere che anche le direttive comunitarie in materia di appalti e concessioni non potrebbero trovare applicazione ai contratti diretti a procurare risorse strumentali all’esercizio di attività riservate alla sovranità nazionale degli Stati». In altri termini, la direttiva impone l’indizione di gare pubbliche a tutela della concorrenza per il mercato, materia “trasversale” che è suscettibile di trovare applicazione in vari settori dell’ordinamento nazionale, tra cui deve senz’altro farsi rientrare quello delle concessioni di parcheggi a rotazione per l’esercizio del commercio su aree pubbliche per altro caratterizzati anch’essi, come già detto, dalla scarsità delle concessioni assentibili.

In linea di massima, le controversie che attingono alle concessioni di suolo pubblico sottostanno alle regole generali individuate dalla giurisprudenza per il riparto di giurisdizione. Spettano dunque al giudice ordinario quelle concernenti indennità, canoni o altri corrispettivi, in quanto a contenuto meramente patrimoniale, senza che assuma rilievo un potere d’intervento della P.A. a tutela di interessi generali (ex plurimis, Cass., SS.UU., ord. 30 luglio 2020, n. 16459). 

Con riferimento al canone, solo quando venga in contestazione – come, nel caso dell’impugnazione del regolamento – l’esercizio di poteri valutativo-discrezionali nella sua determinazione «sia in punto di an debeatur sia in punto di individuazione dei criteri di determinazione del quantum debeatur, e non già il suo mero calcolo aritmetico sulla base di criteri già predeterminati», la competenza è del giudice amministrativo.

Giova rammentare il quadro normativo: l’art. 42 del d.lgs. n.  507 del 1993, concernente la «Revisione ed armonizzazione dell’imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche dei Comuni e delle Province nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani a norma dell’art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, concernente il riordino della finanza territoriale Ecologia», ha introdotto la distinzione tra occupazioni di spazi ed aree pubbliche “permanenti” o meno, considerando tali quelle «di carattere stabile, effettuate a seguito del rilascio di un atto di concessione, aventi, comunque, durata non inferiore all’anno, comportino o meno l’esistenza di manufatti o impianti» (comma 1, lett. a), per le quali era dovuta una tassa, a tariffa – variabile – «graduata a seconda dell’importanza dell’area sulla quale insiste l’occupazione» e«commisurata alla superficie occupata»; l’art. 63 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n.446, in attuazione della delega, conferita al Governo dalla legge del 23 dicembre 1996, n. 662, ha demandato alle Province ed ai Comuni il potere di adottare un regolamento per assoggettare il titolare della concessione di occupazione, permanente o temporanea, appunto, di strade, aree e relativi spazi soprastanti e sottostanti appartenenti al demanio o patrimonio indisponibile dell’ente, comprese le aree destinate a mercati, anche attrezzati, all’obbligo del pagamento di un canone «con riferimento alla durata dell’occupazione» e maggiorabile «di eventuali oneri di manutenzione derivanti» dall’occupazione stessa, commisurato alle esigenze del bilancio dell’ente, al valore economico delle aree e all’entità del sacrificio imposto alla collettività con la rinuncia all’uso pubblico generalizzato degli spazi occupati. Inizialmente, era stata prevista anche l’abolizione, con decorrenza dal primo gennaio 1999, delle tasse per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche di cui al capo II del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 50 (TOSAP), ma l’art. 31, comma 14, della legge 23 dicembre 1998, n. 448  ha poi ripristinato il precedente assetto normativo, anche ai fini della giurisdizione, sicché si è stabilito che l’obbligo del pagamento del canone (COSAP) poteva coesistere con l’obbligo del pagamento della tassa per l’occupazione di aree pubbliche (TOSAP), stante la diversità della natura delle prestazioni dovute dal concessionario, essendo il canone COSAP, per l’appunto, non un tributo ma il corrispettivo di una concessione, reale o presunta (nel caso di occupazione abusiva), dell’uso esclusivo o speciale di beni pubblici. La medesima norma, infine, al comma 20, nel modificare il comma 1 dell’art. 63 del d.lgs. n. 446 del 1997, stabilì che «i comuni possono», adottando appositi regolamenti, «escludere l’applicazione nel proprio territorio della TOSAP», e in alternativa «prevedere che l’occupazione, sia permanente che temporanea, degli spazi e delle aree», elencati nella norma sostituita, sia assoggettata ad un canone di concessione (COSAP) determinato in base a tariffa, con relativa giurisdizione in capo al giudice ordinario e non tributario, anche a seguito della sentenza della Corte costituzionale sull’art. 3-bis, comma 2, lett. b), della legge 2 dicembre 2005, n. 248, intervenuto a novella, dato atto della diversa natura giuridica del COSAP rispetto alla TOSAP.  Al fine di evitare che le scelte concessorie dipendessero da decisioni estemporanee degli Enti territoriali contrarie anche ad un ordinato governo del territorio, l’art. 63 del d.lgs. 446 del 1997 demandava al regolamento comunale anche la disciplina delle condizioni di rilascio e di rinnovo delle autorizzazioni, nonché degli ambiti sanzionatori, facendo salve peraltro le previsioni del sopra richiamato art. 20 del Codice della strada. Tale principio ha trovato consacrazione in numerose pronunce dei giudici di legittimità e amministrativi, in particolare a far data dalla decisione del 7 gennaio 2016, n.61, delle Sezioni Unite della Cassazione, che ha ribadito la natura di corrispettivo del Cosap per la concessione dell’uso esclusivo o speciale di beni pubblici, e non per la sottrazione al sistema della viabilità di un’area o spazio pubblico. Da ultimo, il Capo I del d.lgs. n. 507 del 1993 è stato formalmente abrogato con l’art. 1, comma 847 della legge 27 dicembre 2019, n. 160, salvo essere ripristinato dal d.l. 30 dicembre 2019, n. 162, convertito, con modificazioni dalla l. 28 febbraio 2020, n. 8, che all’art. 4, comma 3-quater ha disposto che l’abrogazione non operi per l’anno 2020. E’ stato infatti introdotto un “canone unico” di concessione, autorizzazione o esposizione pubblicitaria, che assorbe anche quello di cui all’art. 27, commi 7 e 8, del Codice della Strada, limitatamente alle strade di pertinenza dei comuni e della province, con portata comprensiva di qualunque canone ricognitorio o concessorio previsto da norma di legge o di regolamento, fatti salvi quelli connessi a prestazioni di servizi. Il potere regolamentare dei Comuni resta tuttavia anche nella nuova cornice normativa, giusta le previsioni in tal senso contenute ai commi da 816 a 836 del richiamato art. 1 della legge di bilancio 2020, che ne demanda al Consiglio comunale, specificando tra i contenuti obbligatori anche le condizioni di rilascio della concessione e il regime sanzionatorio, il cui importo non può superare il 50 % del canone dovuto, ferme restando le sanzioni previste dal codice della strada stesso. Il canone può essere maggiorato di eventuali effettivi e comprovati oneri di manutenzione in concreto derivanti dall’occupazione del suolo e del sottosuolo che non siano, a qualsiasi titolo, già posti a carico dei soggetti che hanno effettuato le occupazioni.  Il comma 822 pone a carico dell’Ente proprietario la rimozione dell’occupazione abusiva previa redazione di processo verbale di constatazione redatto da competente pubblico ufficiale, con oneri derivanti dalla rimozione a carico dei soggetti che hanno effettuato le occupazioni.

In relazione alle impugnative degli avvisi di pagamento, la loro contestazione dedotta in via derivata rispetto al regolamento Cosap (ora del canone unico), è stata fatta rientrare nella giurisdizione del Giudice amministrativo. Diverse considerazioni valgono, invece, in ordine a eventuali profili di censura in via autonoma (si veda, in proposito, Cass. SS. UU. Sentenza n. 21950 del 2015, ove si legge: «le controversie relative ai canoni per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario, perché l’obbligo di pagamento di un canone per l’utilizzazione del suolo pubblico non ha natura tributaria, esulando dalla doverosità della prestazione e dal collegamento di questa alla pubblica spesa»).  Si consideri, peraltro, che la stretta correlazione tra l’atto amministrativo generale presupposto “a monte” e l’atto applicativo “a valle” non ha una rilevanza circoscritta ai profili giurisdizionali; esso incide, altresì, sull’accertamento del momento in cui possa dirsi integralmente manifestata la lesività del medesimo regolamento.

Avuto riguardo al delicato settore delle concessioni demaniali marittime – ma il principio può essere esteso ad ogni ambito – si è altresì affermato che spetta al giudice amministrativo la giurisdizione sul contenzioso concernente i provvedimenti di rideterminazione del canone, adottati in applicazione dell’art. 1, comma 251, della legge finanziaria n. 296 del 2006, qualora non si tratti della sua mera quantificazione, ma la controversia riguardi anche altri aspetti comportanti una valutazione tecnico-discrezionale da parte dell’Amministrazione (es., l’integrale revisione previa ricognizione tecnico-discrezionale del carattere di pertinenze demaniali marittime delle opere realizzate in precedenza dal concessionario, anche in considerazione dell’inamovibilità o meno delle stesse; la questione se le opere realizzate sul suolo demaniale divenissero di proprietà dello Stato soltanto alla scadenza della concessione; l’applicabilità della normativa sopravvenuta alle concessioni in corso).

5Le sanzioni di natura non pecuniaria.

Individuare la natura sanzionatoria della misura applicata può non essere sufficiente a individuare anche il giudice competente in relazione alla sua impugnazione. Ciò nello specifico laddove essa venga irrogata autonomamente, ovvero costituisca l’unica conseguenza della condotta illecito oppure l’ulteriore conseguenza della stessa, già sanzionata in via amministrativa, pecuniaria e non solo, ovvero penale. L’art. 6 del d.lgs. n. 150 del 2011, infatti, con riferimento alla competenza del tribunale, parla di “sanzione di natura diversa” applicata “congiuntamente” a quella pecuniaria, ovvero “da sola”.  

In passato, sulla base della formulazione letterale dell’art. 22 della l. n. 689 del 1981, si era affermata la giurisdizione amministrativa per tutte le sanzioni accessorie diverse dalla confisca, purché irrogate autonomamente. La questione è stata ancora di recente oggetto di una pronuncia delle Sezioni unite della Cassazione (ordinanza 21 settembre 2020, n. 19664), che pronunciandosi sul regolamento di giurisdizione sollevato in relazione alla sanzione della chiusura per dieci giorni dell’esercizio destinato al gioco sportivo e alle lotterie irrogata dall’Agenzia delle Dogane e dei monopoli per l’accertata violazione, da parte della Questura, dell’art. 24, comma 21, del d.l. n. 98 del 2011, convertito con modificazioni dalla l. n. 11 del 2011, ha ritenuto di individuare l’elemento di discrimine nella mancanza di discrezionalità applicativa. In tal modo il giudice ha inteso discostarsi dal precedente orientamento che ravvisava, appunto, nell’autonomia della sanzione l’elemento diversificante, giusta la stretta connessione di quella irrogata contestualmente ad altra pecuniaria con i presupposti di quest’ultima. Al contrario, l’autonomia era considerata quasi ex se indizio di un contenuto conformabile dalla pubblica amministrazione, mediante l’esercizio del proprio potere discrezionale, alla violazione concretamente posta in essere ed espressione dell’esercizio del potere, anch’esso discrezionale, di vigilanza e controllo dell’autorità amministrativa. 

Al contrario, il perno della questione viene ora a spostarsi propria sulla sussistenza o meno di discrezionalità applicativa, a prescindere dal momento in cui si addivenga alla scelta, rilevando caso mai lo stesso quale vizio del procedimento sanzionatorio in qualunque sede rilevato. La discrezionalità va dunque effettivamente accertata e costituisce la cartina di tornasole non della natura sanzionatoria o meno del provvedimento, ove comunque afflittivo, ma della sua portata doverosa nell’an e necessitata nel quomodo. Solo laddove, quindi, non vi è alcuna possibilità di scelta da parte della P.A. procedente, la giurisdizione in materia di sanzione di natura non pecuniaria è del giudice ordinario.

La natura esclusivamente afflittiva e il potere interamente vincolato della norma che definisce dettagliatamente il fatto che integra la violazione stabilisce l’obbligo di applicare la sanzione determinandone in via esclusiva e non alternativa il contenuto anche in relazione alla durata, con la prescrizione inderogabile del minimo e del massimo irrogabili. A quel punto l’applicazione della sanzione consegue ad un obbligo di legge, derivante dalla commissione del fatto illecito, accertata dall’autorità di polizia, e non costituisce il risultato di un’autonoma attività di vigilanza e controllo dell’autorità amministrativa irrogante.  

Questo importante ripensamento giurisprudenziale ci consente oggi di azzardare qualche conclusione sulla giurisdizione, venendo a specificarsi (attraverso qualche grossa semplificazione) che, eccezion fatta per i casi di giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo, le sanzioni non pecuniarie, comminabili in carenza di discrezionalità, appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario in relazione alla loro specifica afflittività.

Una interessante applicazione dei ridetti principi è dato ravvisare nelle numerose pronunce di primo grado (inappellate) nelle quali il giudice amministrativo ha declinato la propria competenza avuto riguardo a talune sanzioni previste dalla legislazione emergenziale per fronteggiare l’epidemia da COVID-19. Con riferimento, ad esempio, alla disciplina di cui all’art. 4, comma 2, del d.l.ec n. 19 del 2020, convertito in l. n. 35 del 2020 – che prevede espressamente quale sanzione accessoria non alternativa la chiusura dell’esercizio da 5 a 30 giorni nei casi di cui all’art. 1, comma 2, lettere i), m), p), u), v), z) e aa) – si è infatti riconosciuto che trattasi indiscutibilmente di fattispecie in cui risultano predeterminate sia la condotta sia la sanzione minima e massima, così che «la sanzione accessoria ha natura esclusivamente afflittiva al pari di quella pecuniaria alla quale si aggiunge ancorché senza alcun collegamento causale o consequenziale». Ne discende «che non venga in tal caso, in rilievo alcun potere discrezionale, in quanto l’autorità è priva del potere di stabilire se applicare la sanzione, né può articolarne il contenuto come nelle sanzioni ripristinatorie della situazione modificata a causa della condotta illecita» e in considerazione del fatto che non risulta ascrivibile all’esercizio di un potere propriamente discrezionale la mera determinazione dei giorni di chiusura del locale aperto al pubblico, da effettuarsi dalla stessa tra un minimo e un massimo, rigorosamente predeterminati dalla norma.  A tutto ciò consegue che la afflittività della misura irrogata ne implica la portata “sanzionatoria” e le conseguenti garanzie anche procedurali nella irrogazione; ma è l’obbligo applicativo e contenutistico a sancirne il regime delle tutele.  

6. La rimozione dell’occupazione di suolo pubblico nella normativa a tutela della sicurezza delle città.

Con la legge 15 luglio 2009, n. 94, è stato inserito un particolare tipo di rimedio avverso occupazioni abusive di suolo pubblico che va ad aggiungersi a quelli già previsti e che ha dato luogo a un interessante contenzioso che attinge i principi poco sopra enunciati. Trattasi dell’art. 13, commi 16, 17 e 18. La norma prevede dunque che fatta salva l’applicazione dei provvedimenti dell’autorità per motivi di ordine pubblico (per esempio, ordinanze contingibili e urgenti), in tutti i casi di indebita occupazione di suolo pubblico riconducibile o al reato di cui all’articolo 633 del codice penale o alla fattispecie di cui all’articolo 20 del codice della strada, il sindaco per le strade urbane e il prefetto per quelle extraurbane o per ogni luogo quando ricorrono motivi di sicurezza pubblica, possono ordinare il ripristino dello stato dei luoghi a spese degli occupanti.

In caso di accertamento di tali illeciti, peraltro, è prevista sempre la trasmissione di copia del verbale di accertamento alla Guardia di finanza (art. 1, comma 18), ai sensi dell’art. 36 della del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600.

Come affermato da subito dai primi commentatori, la tipologia di provvedimento previsto da questa disposizione non è riconducibile al genus delle ordinanze contingibili ed urgenti, pur nascendo da esigenze di sicurezza, lato sensu intesa. Con tale norma si generalizza caso mai una specifica sanzione accessoria riferita a due diverse tipologie di illecito, penale (art. 633 c.p.) e amministrativo (art. 20 Codice della strada), in quanto esplicitamente richiamati. Il tema è stato affrontato nuovamente dal dal d.l. 20 febbraio 2017, n. 14, convertito dalla l. 18 aprile 2017, n. 48, che ha inteso peraltro valorizzare in termini più generali la potestà regolamentare del comune in materia di “sicurezza delle città”, e dunque in una visione prospettica ben diversa da quella a carattere economico comunque sottesa alla riscossione del canone. Il legislatore dunque da un lato ha riscritto per l’ennesima volta il potere di ordinanza del sindaco per la tutela della “sicurezza urbana”; dall’altro, ha delimitato inediti spazi di intervento per i regolamenti comunali. Si è cercato in tal modo di porre rimedio ad una delle principali contraddizioni sorte a seguito della novella dell’art. 54 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, attuata con l’art. 6 del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito dalla legge 24 luglio 2008, n. 125. In primo luogo, mediante l’inserimento del comma 7-ter nell’art. 50, dunque, concernente il potere di ordinanza del Sindaco quale capo del governo locale, è stata attribuita ai comuni la potestà di dotarsi di appositi regolamenti nelle medesime materie per le quali gli è riconosciuto di provvedere in via d’urgenza. Si tratta delle «situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell’ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti, anche intervenendo in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche». In secondo luogo, si è demandata ai regolamenti comunali di polizia urbana la possibilità di «individuare aree urbane su cui insistono scuole, plessi scolastici e siti universitari, musei, aree e parchi archeologici, complessi monumentali o altri istituti e luoghi della cultura o comunque interessati da consistenti flussi turistici, aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati, pubblici spettacoli ovvero adibite a verde pubblico», nell’ambito delle quali applicare a chi ponga in essere condotte che ne impediscono l’accessibilità e la fruizione, in violazione dei divieti di stazionamento o di occupazione di spazi, la sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma da euro 100 a euro 300 e il contestuale ordine di allontanamento dal luogo in cui è stato commesso il fatto. Va peraltro precisato che l’art. 5, comma 1, lett. c) del decreto rimette ai patti per l’attuazione della sicurezza urbana la “valorizzazione” di forme di collaborazione interistituzionale tra le amministrazioni competenti quale tipico strumento di sicurezza partecipata anche l’eventuale supporto all’ente locale nell’individuazione delle aree urbane da sottoporre alla particolare tutela di cui all’articolo 9, comma 3 dello stesso. 

Nel complicato gioco di rimandi riveniente dalle numerose clausole di rinvio agli illeciti previsti dalle varie norme richiamate (ad esempio, l’art. 29 del d.lgs. n. 114 del 1998 per quanto concerne il commercio su aree pubbliche, senza peraltro distinguere all’interno dello stesso le varie tipologie di violazioni), il richiamato comma 3 dell’art. 9 fa salva anche l’applicazione dell’art. 52, comma 1-ter, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali) e dell’art. 1, comma 4, del d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222 (Individuazione di procedimenti oggetto di autorizzazione, segnalazione certificata di inizio di attività -SCIA-, silenzio assenso e comunicazione di inizio lavori e di definizione dei regimi amministrativi applicabili a determinate attività e procedimenti, ai sensi dell’articolo 5 della legge 7 agosto 2015, n. 124)[39]. La prima di tali disposizioni, al fine di assicurare il decoro dei complessi monumentali e degli altri immobili del demanio culturale interessati da flussi turistici particolarmente rilevanti, nonché delle aree a essi contermini, avoca al livello statale (i competenti uffici territoriali del ministero per i beni e le attività culturali, id est le Soprintendenze), seppure d’intesa con la regione e i comuni, l’adozione di  determinazioni volte a vietare gli usi da ritenere non compatibili con le specifiche esigenze di tutela e di valorizzazione, comprese le forme di uso pubblico non soggette a concessione di uso individuale, quali le attività ambulanti –recte, itineranti – senza posteggio, nonché, ove se ne riscontri la necessità, l’uso individuale delle aree pubbliche di pregio a seguito del rilascio di concessioni di posteggio o di occupazione di suolo pubblico. L’art. 1, comma 4, del decreto legislativo 25 novembre 2016, n. 222, egualmente prevede, a riprova della ribadita necessità di porre alcuni argini al processo di liberalizzazione delle attività economiche nell’ambito delle scelte di governo, un invertito assetto delle competenze, per cui è il comune, d’intesa con la regione, sentito il competente soprintendente del ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, ad adottare le deliberazioni volte a individuare, sentite le associazioni di categoria, zone o aree aventi particolare valore archeologico, storico, artistico e paesaggistico in cui è vietato o subordinato ad autorizzazione, l’esercizio di una o più attività, in quanto ritenuta non compatibile con le esigenze di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale. Come si vede da un’analisi comparata delle disposizioni richiamate, le finalità di tutela finiscono per essere sovrapponibili, laddove al Comune è consentito in maniera più ampia riservarsi l’imposizione del titolo abilitativo espresso, così da demandare al momento del relativo rilascio la verifica della compatibilità con l’assetto dei luoghi che si vogliono tutelare. La possibilità, cioè, di imporre un titolo di legittimazione che non sia la segnalazione certificata di inizio di attività, prevista in tutte le altre aree del territorio, anche per reintrodurre surrettiziamente il controllo della tipologia o categoria merceologica e valutarne la compatibilità con le esigenze di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, diviene strumento per controllarne l’insediamento. Ovviamente, affinché ciò non si risolva in una limitazione indiscriminata della concorrenza in dispregio delle disposizioni europee recepite nelle d.lgs. 59/2010, si prevede un costante monitoraggio da parte del ministero dei provvedimenti adottati. Allo scopo, le deliberazioni adottate sulla base di tale norma devono essere trasmesse alla competente soprintendenza del ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo e al ministero dello sviluppo economico per il tramite della regione. La digressione intrapresa, tuttavia, mette in luce la astratta sovrapponibilità di assetti regolatori diversi, anche a livello locale, giusta le variegate possibilità di intervento, in ragione dei diversificati interessi pubblici evidenziati, previste dal legislatore. 

Limitandosi, dunque, ad alcuni dei possibili strumenti di eliminazione di un’occupazione abusiva, va rimarcato come il provvedimento (scritto) del Sindaco o del Prefetto previsto dalla normativa del 2009 è rimesso alla discrezionalità dell’Amministrazione; al contrario, l’ordine di allontanamento è doveroso al ricorrere delle condizioni date, come dimostrato dalla perentorietà dei termini utilizzati dal legislatore, al pari, del resto, dell’attivazione della sanzione accessoria del ripristino dello stato dei luoghi prevista dall’art. 20 del Codice della Strada e della rimozione dell’abuso cui fa riferimento, da ultimo, la legge n. 160 del 2019. Sicché a parità di effetto afflittivo, utilizzando il paradigma da ultimo fornito dalle Sezioni unite della Cassazione, le relative opposizioni vanno ricondotte alla competenza del giudice ordinario, salva la prima ipotesi richiamata, pur incidendo comunque la misura su diritti costituzionalmente garantiti, quali la libertà di movimento.

Le sentenze del Consiglio di Stato aventi ad oggetto il provvedimento di chiusura dell’attività commerciale che ha posto in essere un’occupazione abusiva di suolo pubblico sono moltissime, e per lo più già andavano nella direzione da ultimo tracciata dai giudici di legittimità: avendo il legislatore utilizzato il verbo “possono”, a sottolineare il discrezionale esercizio del potere, la competenza a decidere sui ricorsi va attribuita al giudice amministrativo. 

Occorre se mai chiedersi se siano ancora attuali le stesse affermazioni ove riferite alla determina dirigenziale che dà attuazione ad una previsione regolamentare a monte, non impugnata, che ne ha imposto l’adozione a presupposti dati, addirittura indicando l’entità dei giorni di chiusura nell’ambito del tetto massimo fissato dal legislatore. Ciò laddove evidentemente, mutatis mutandis quanto richiamato a proposito degli avvisi di accertamento, non si intenda attraverso l’atto conseguente censurare vizi dell’atto regolamentare presupposto. Per contro, la giurisprudenza ha al riguardo affermato con riferimento alla scelta regolamentare attuata dal Comune di Roma Capitale: «La norma attributiva del potere conferisce al sindaco una facoltà discrezionale di chiusura dell’attività commerciale per un termine non inferiore a cinque giorni. Nella specie, il sindaco di Roma, in assenza di vincoli normativi in ordine alle modalità di esercizio del potere discrezionale, lo ha legittimamente esercitato, all’esito di una complessiva comparazione degli interessi rilevanti, mediante l’adozione di un atto di natura generale. In particolare si è ritenuto che per le ragioni indicate nell’atto in tutti i casi in cui fosse stata accertata l’occupazione abusiva di suolo pubblico, in determinate zone storiche della città di Roma, sarebbe stato necessario applicare anche la sanzione della chiusura dell’attività commerciale. La particolare situazione in cui versavano ampie zone della parte storica ha pertanto giustificato l’adozione di un provvedimento di valenza generale con il quale si è disposta l’applicazione delle sanzioni previste» (Cons. Stato, Sez. V, 23 marzo 2015, n. 1611). Per completezza, è interessante ricordare come in relazione alla potenziale violazione delle disposizioni in materia di liberalizzazione, si è comunque affermato che l’esercizio di un potere di tipo sanzionatorio può sempre legittimamente limitare l’iniziativa economica garantita dall’articolo 41 della Costituzione. Nel caso di specie, la sua riconducibilità al potere di ordinanza ordinario, oltre a renderlo rispettoso delle indicazioni rivenienti dalla sentenza della Corte costituzionale 7 aprile 2011, n. 115, che, come noto, ha inciso sul comma quattro dell’articolo 54 del T.u.e.l. laddove aveva inserito la possibilità di adottare anche provvedimenti ordinari per ragioni di sicurezza urbana, ben si concilia con la sua riconduzione allo strumento regolamentare tipicamente espressivo del potere normativo dell’organo elettivo del Comune. Viene infatti ritenuto «conforme a costituzione la previsione normativa attributiva di un potere sindacale ordinario che contenga sia il fine pubblico da raggiungere (cosiddetta legalità-indirizzo) sia contenuto in modalità di esercizio del potere (cosiddetta legalità-garanzia)». Ciò anche relativamente alla scelta di elevare a livello generale il potere sanzionatorio stabilito dalla norma, fissandone appunto i presupposti con apposito regolamento e con ciò trasformando in verità una mera facoltà, correlata alla valutazione dei singoli interessi in gioco, ivi compresa, si ritiene, la concomitante attivazione di diversi procedimenti sanzionatori, in obbligo di irrogazione. Spetterebbe dunque al giudice ordinario valutare la legittimità della sopravvenienza del provvedimento a distanza di molto tempo dalla commessa violazione, laddove al contrario il giudice amministrativo ha ritenuto ininfluente finanche l’avvenuto ripristino della situazione di legalità, proprio in ragione della portata “ineludibile” della sanzione prevista. La cessazione dell’illegittima occupazione, il ripristino dei luoghi e il pagamento delle sanzioni irrogate da parte del contravventore non fanno venire meno, infatti, gli «indefettibili presupposti» per l’adozione del provvedimento di chiusura dell’esercizio, «dal momento che quei fatti sopravvenuti all’accertato abuso non possono avere natura di eliminazione dell’abuso stesso, laddove il provvedimento di chiusura ha natura sanzionatoria e va comunque adottato, la chiusura dell’esercizio per un periodo di cinque giorni rappresentando la misura minima della sanzione in caso di occupazione indebita di suolo pubblico per fini commerciali ».

7. Problematiche di ne bis in idem.

La astratta applicabilità di una pluralità di sanzioni impone di domandarsi anche se le stesse concorrano tra di loro ovvero si elidano a vicenda, giusta la applicabilità del principio del ne bis in idem, che costituisce il limite negativo alla disciplina del concorso formale di illeciti, seppure mitigato in termini di proporzionalità dal regime del cumulo giuridico.  

Va ricordato brevemente come il principio del ne bis in idem ha subito negli ultimi anni una radicale trasformazione, perdendo la propria connotazione – esclusivamente processuale – di baluardo contro la sottoposizione, per il medesimo illecito, a due distinti procedimenti, originariamente penali, e divenendo garanzia sostanziale di proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio.

Preliminarmente, esso si declina dunque nel divieto di instaurare o proseguire un nuovo procedimento sugli stessi fatti o circostanze già oggetto di un precedente giudizio ovvero di un diverso procedimento. La ratio tutela, quindi, l’autorità della cosa giudicata e la certezza del diritto.

Tale divieto è codificato, nell’ordinamento interno, dall’art. 649 c.p.p., con implicita copertura costituzionale negli artt. 24 e 111 Cost. A livello internazionale, invece, il principio in esame è stato positivizzato dall’art. 4 p. 1 del VII Protocollo addizionale della CEDU e dall’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (dotata di efficacia vincolante al pari dei Trattati).

Astrattamente, tuttavia, come si evince dalle statuizioni delle Corti EDU e UE e dalle conclusioni della Suprema Corte di Cassazione, esso non si pone in contrasto con la tendenziale legittimità del c.d. doppio binario sanzionatorio.Una recente pronuncia dei giudici di legittimità aveva già tentato di mitigare la portata di tale ricostruzione, basata sulla sostanziale possibilità di duplicare i regimi sanzionatori. Si è dunque affermato che ai fini del divieto di bis in idem di cui all’art. 4, §1, Protocollo n. 7 alla Convenzione EDU, la natura (sostanzialmente) penale della sanzione qualificata come amministrativa dall’ordinamento interno deve essere valutata applicando i cd. “Engel criteria”, ma la violazione non sussiste nei casi di litispendenza, quando cioè una medesima persona sia perseguita o sottoposta contemporaneamente a più procedimenti per il medesimo fatto storico e per l’applicazione di sanzioni formalmente o sostanzialmente penali, oppure quando tra i procedimenti vi sia una stretta connessione sostanziale e procedurale. In tali casi deve essere garantito un meccanismo di compensazione che consenta di tener conto, in sede di irrogazione della seconda sanzione, degli effetti della prima così da evitare che la sanzione complessivamente irrogata sia sproporzionata. Ne consegue che in caso di sanzione (formalmente amministrativa ma) sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione EDU, irrevocabilmente applicata all’imputato successivamente condannato in sede penale per il medesimo fatto storico, il giudice deve commisurare la pena tenendo conto di quella già irrogata, utilizzando, a tal fine, il criterio di ragguaglio previsto dall’art. 135 c.p., applicando, se del caso, le circostanze attenuanti generiche e valutando le condizioni economiche del reo. Il meccanismo di compensazione non si applica se la sanzione amministrativa è stata precedentemente pagata da persona diversa dal reo.

La Corte costituzionale tuttavia si è spinta assai più avanti con la sentenza n. 149 del 10 maggio 2022, i cui effetti sul piano pratico nell’ambito del diritto punitivo sono ancora da scrutinare. I giudici della Consulta hanno dichiarato la illegittimità costituzionale proprio dell’art. 649 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio nei confronti dell’imputato, al quale, con riguardo agli stessi fatti, sia già stata irrogata in via definitiva, nell’ambito di un procedimento amministrativo non legato a quello penale da un legame materiale e temporale sufficientemente stretto, una sanzione avente carattere sostanzialmente penale ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dei relativi protocolli, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), apporta nuova linfa propulsiva alla tematica di riferimento. Nel caso di specie la Corte ha censurato la norma in quanto non impone al giudice di pronunciare una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere nei confronti di un imputato per uno dei delitti previsto dall’art. 171-ter della l. n. 633 del 1941, sulla tutela del diritto d’autore, il quale, in relazione al medesimo fatto, sia già stato sottoposto a procedimento, definitivamente conclusosi, per l’illecito amministrativo di cui all’art. 174-bis della legge medesima. Ciò si pone infatti in contrasto con la ratio del principio delne bis in idem, ovvero «quella di evitare che un soggetto sia sottoposto ad un’ulteriore sofferenza nonché a costi economici, ovvero a quelle che sono le conseguenze naturali di un nuovo processo a fronte di fatti per i quali esso sia già stato giudicato.  Sono presupposti per la configurazione del ne bis in idem: la sussistenza di un medesimo fatto, la sussistenza di una previa decisione (che concerna il merito della responsabilità penale dell’imputato e che sia divenuta irrevocabile) nonché la sussistenza di un secondo procedimento o processo di carattere penale per quei medesimi fatti». Laddove tuttavia la nozione di sanzione “penale” attinge largamente all’elaborazione europea, piuttosto che alla codifica di diritto positivo nazionale. 

La Corte conclude affermando la propria consapevolezza dell’insufficienza della declaratoria di illegittimità costituzionale della norma in parte qua, rivolgendo un monito in senso correttivo al legislatore «nel quadro di un’auspicabile rimeditazione complessiva dei vigenti sistemi di doppio binario sanzionatorio».  

Conclusioni.

La necessità di realizzare in Italia una radicale semplificazione normativa, accompagnata da quella amministrativa, viene unanimemente indicata dagli analisti, da rapporti internazionali e nazionali, nonché dalle forze politiche e dai settori produttivi, come un elemento essenziale per il rilancio del Paese. E ciò, sia in termini di competitività delle imprese, sia in termini di qualità della vita dei cittadini, favorendo l’accesso ai servizi e la tutela dei diritti. L’efficienza e la competitività del sistema produttivo, la crescita economica e la stessa qualità della vita risentono della qualità della regolazione, non meno che della semplificazione amministrativa: la deflazione normativa, la migliore e più coerente produzione e manutenzione delle regole scongiurano infatti il rischio di un’incertezza del diritto che alligna nell’eccesso di norme, soprattutto se confuse e contraddittorie, la quale può condurre alla negazione del diritto stesso e a porre le premesse per comportamenti illegali. 

Quanto detto, tuttavia, come vale necessariamente nella fase di avvio delle attività economiche, non può non valere anche con riferimento alla eventuale patologia del relativo esercizio, sì da rendere la sanzione afflittiva in maniera commisurata al comportamento tenuto, e comunque non radicalmente ostativa, per reiterazione e non per intensità, alla loro prosecuzione.  

L’interprete dunque, nel dipanare la intricata matassa di norme, nazionali e locali mal coordinate e sovrapposte, deve comunque tenere conto di tali elementari principi di garanzia, evitando la duplicazione di procedimenti sanzionatori, volti a censurare sotto l’egida della apparente diversità del valore giuridico tutelato la medesima condotta, addirittura con sanzioni di identico contenuto.  Evidenti ragioni di sintesi non consentono di attingere anche le problematiche urbanistico-edilizie, igienico-sanitarie, ovvero ambientali connesse alla realizzazione in ampliamento di locali preesistenti della superficie destinata alla vendita o alla somministrazione di alimenti e bevande

Se si eccettuano i profili di natura tributaria, dunque, la consistenza dell’abuso, tale da farlo assurgere a edificazione sine titulo, con quanto ne consegue in termini di rispetto delle eventuali disposizioni vincolistiche vigenti, dovrebbe indurre a riflettere sulla sua riconducibilità anche a tutte le ulteriori fattispecie di illecito astrattamente configurabili, laddove non sia ravvisabile un elemento certo di specialità di ciascuna di esse. A titolo di esempio, l’avvenuta attivazione del procedimento di cui all’art. 211 del Codice della strada, dovrebbe essere valutato al fine dell’applicazione di ulteriori misure della rimozione immediata dell’illecito, a maggior ragione ove introdotta più volte e con distinte finalità in distinti regolamenti comunali, di fatto riproducendo a livello locale le brutte abitudini regolatorie che affliggono la legislazione nazionale.  E comunque, ancora una volta, è la Consulta a farsi da propulsore verso una razionalizzazione normativa che guidi a maggior ragione le scelte di politica punitiva, evitando di affidarle a spinte emozionali del momento e comunque imponendo la consapevole messa a sistema di tutte le possibili conseguenze di una condotta astrattamente contra ius.  

 Con riferimento al caso in cui la medesima condotta violi diverse disposizioni normative, l’art. 8 della legge 24 novembre 1981, n. 689, ha introdotto nel sistema sanzionatorio amministrativo il cumulo giuridico corrispondente a quello previsto per le pene dall’art. 81 del codice penale, ossia il concorso formale al primo comma, e successivamente, al secondo comma, la continuazione, ma limitatamente alle violazioni in materia di previdenza e assistenza obbligatorie. L’introduzione dell’istituto del concorso formale omogeneo o eterogeneo nel testo della legge ha avuto un andamento altalenante, indice della complessità della materia e del dibattito conseguitone: previsto nel disegno di legge 339 approvato dalla Camera dei deputati nella seduta del 18 settembre 1980, venne poi  soppresso dal Senato (v. il testo trasmesso alla Camera il 17 giugno 1981) essendo stato, a quanto si legge nel resoconto della seduta della IV commissione della Camera del 22 luglio 1981, ritenuto superfluo perché la disposizione era ricavabile dai princìpi generali; ma fu ripristinato dalla richiamata commissione della Camera, nella seduta del 10 settembre 1981. A livello di disciplina generale non è stato invece previsto un regime mitigato in caso di concorso materiale di illeciti, che comporta pertanto la sommatoria “aritmetica” delle sanzioni, salvo il ricordato regime della continuazione introdotto dall’art. 1-sexies della legge 31 gennaio 1986, n. 11, di conversione in legge del decreto-legge 2 dicembre 1985, n. 688, limitatamente alle violazioni in materia previdenziale e contributiva, nel quadro della lotta all’evasione, con la dichiarata finalità di evitare una pesantezza delle sanzioni che avrebbe potuto scoraggiare gli autori degli illeciti evasori a mettersi in regola (seduta della Camera del 24 gennaio 1986). Sul tema v. Cons. Stato, sez. I, 15 aprile 2014, n. 1264. 

 Basti ricordare, a mero titolo di esempio, le varie disposizioni (legislazione tributaria, regolamenti comunali, a loro volta riferiti alle varie materie destinate ad impattare sulla tematica, Codice della Strada, normativa urbanistico-edilizia ovvero vincolistica), da ultimo conseguite anche all’esigenza di fronteggiare l’emergenza pandemica e gli obblighi di distanziamento sociale ad essa correlati, che prevedono la rimozione dell’occupazione di suolo pubblico abusiva strumentale allo svolgimento di un’attività economica, determinando di fatto la sovrapposizione di procedure, per lo più connotate da modalità e tempistiche diverse. Sulla sopravvenienza della sanzione della chiusura dell’attività commerciale a distanza di anni dall’illecito, v. Cons. Stato, sez. II, 4 giugno 2020, n. 3548, riferita alla previsione dell’art. 5, comma 2, della l. 18 gennaio 1994, n. 50, quale conseguenza dell’accertamento del reato (per il quale era peraltro intervenuta estinzione per oblazione) di cui agli artt. 291-bis e 291-ter del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, relativo alla detenzione di tabacchi lavorati di contrabbando. La sentenza affronta anche il tema degli effetti del subingresso nell’attività commerciale intervenuto medio tempore, che può comportare l’estraneità dell’acquirente all’illecito originario, non potendoglisi certo imporre un onere di informativa sui procedimenti sanzionatori, di qualsiasi tipologia, pendenti o pregressi, vuoi in ragione della inesistenza di un’effettiva banca dati al riguardo, vuoi per non incorrere in violazione del divieto di gold platingnelle transazioni commerciali.    

 Alla logica di semplificazione nell’accesso agli uffici pubblici rispondono, come noto, l’art. 24 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, di istituzione dello sportello unico delle attività produttive (S.U.A.P.) – la cui concreta operatività non a caso è stata tuttavia oggetto di disciplina regolamentare solo a distanza di molti anni (si veda da ultimo il d.P.R. 7 settembre 2010, n. 160) – nonché l’art. 5 del d.P.R. 30 giugno 2001, n. 380 (T.u.e.) concernente l’analoga struttura deputata all’istruttoria, anche informativa, delle sole pratiche edilizie di diversa natura. La prassi ha da subito evidenziato difficoltà di coordinamento finanche tra ridette articolazioni organizzative, in particolare negli Enti territoriali di dimensioni ridotte, anche laddove ci si avvalga dei previsti strumenti di gestione associata, per uno solo o per entrambi gli sportelli, con quanto ne è conseguito in termini di individuazione della effettiva titolarità delle competenze e, a cascata, delle conseguenti responsabilità). V. in proposito Cons. Stato, sez. IV, 9 dicembre 2020, n. 7773; sez. II, 27 febbraio 2020, n. 4774.   

 L’elencazione delle sanzioni in materia urbanistico-edilizia riportata nel testo è volutamente limitata ad alcuni dei casi più frequenti di irrogazione di sanzioni pecuniarie individuate in una forbice edittale predeterminata. Più complesso l’inquadramento –ma di certo non il regime delle tutele, per quanto qui di interesse- delle medesime sanzioni pecuniarie, ove previste in alternativa alla demolizione, resa impossibile dal pregiudizio che ne deriverebbe alla parte “lecita” del manufatto (v. art. 34, comma 2, per il caso di realizzazione di un intervento in parziale difformità dal permesso di costruire), commisurate pertanto al valore venale del bene. Come è stato sottolineato dalla dottrina più rigorosa, il provvedimento che ingiunge la demolizione di un’opera abusiva, infatti, non ha natura propriamente sanzionatoria, ma è finalizzato a ripristinare la legalità oggettiva violata dall’abuso, tant’è che finisce per operare in maniera necessitata a prescindere dai profili di colpevolezza del proprietario dell’immobile. La stessa finalità finirebbe per condizionare anche le misure pecuniarie previste, per alcune fattispecie, proprio in alternativa alla demolizione stessa. Queste misure patrimoniali, inaugurate dalla legge-ponte del 1967, costituirebbero cioè uno strumento di riequilibrio patrimoniale diretto ad evitare che la violazione di norme urbanistico-edilizie possa determinare, in assenza della demolizione, un vantaggio patrimoniale in capo al titolare dell’immobile interessato, assumendo pertanto una finalità più propriamente perequativa, che ontologicamente sanzionatoria. Sul punto v. A. Albé, Provvedimenti repressivi di abusi e onere di motivazione, in Urbanistica e appalti, 2013, 12, 1329 (nota a Cons. Stato, sez. IV, 10 giugno 2013, n. 3182); D. Lavermicocca, Le sanzioni in edilizia. Atto vincolato e legittimo affidamento, in Urbanistica e appalti, 2019, 5, 641 (nota a Cons. Stato, sez. VI, 14 maggio 2019, n. 3133).   

 Sul punto, v. ancora Cons. Stato, sez. II, n. 3548 del 2020, cit. sub nota 2. In dottrina, cfr. soprattutto gli studi di M.A. SANDULLI, La potestà sanzionatoria della pubblica amministrazione. Studi preliminari, Napoli, 1981 (e ivi specifici capitoli sulla confisca e sulle sanzioni edilizie); Le sanzioni amministrative pecuniarie. Profili sostanziali e procedimentali, Napoli, 1983; Sanzione amministrativa, voce dell’Enc. giur. Treccani, Roma; Sanzioni non pecuniarie della P.A., in Libro dell’anno del dirittoTreccani, Roma, 2015; e di A. TRAVI, Sanzioni amministrative e pubblica amministrazione, Padova, 1984; Incertezza delle regole e sanzioni amministrative, in Dir. amm. 2014.

 Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 21 gennaio 2020, n. 512, ove si è esclusa la portata precettiva del termine per la contestazione delle violazioni solo nel caso in cui esista una diversa regolamentazione da parte di fonte normativa pari ordinata che per il suo carattere di specialità si configuri idonea ad introdurre deroga alla norma generale e di principio. La fattispecie esaminata dai giudici di Palazzo Spada concerneva le sanzioni irrogate dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato in materia antitrust, con riferimento alle quali la tesi propugnata trova conforto anche nella previsione dell’art. 31 della l. 10 ottobre 1990, n. 287, che richiama le norme generali di cui alla l. 24 novembre 1981, n. 689 «in quanto applicabili», laddove il d.P.R. 30 aprile 1998, n. 217 non reca alcuna indicazione alternativa sulla scansione temporale del procedimento sanzionatorio.   

 In taluni casi, tuttavia, la chiusura dell’attività sembra assumere proprio tale carattere riparatorio. Si pensi a quanto previsto a livello generale dall’art. 17-ter del r.d. 18 giugno 1931 (T.U.L.P.S.) per talune violazioni quali l’attivazione di un pubblico esercizio in assenza di titolo (violazione art. 86, sanzionata ai sensi dell’art. 17-bis): la previsione della cessazione dell’attività da disporsi entro 5 giorni costituisce un tipico esempio di misura cautelare riparatoria, al pari della sospensione per il tempo necessario ad adeguarsi alle prescrizioni, la cui durata non a caso viene scomputata dalla analoga sanzione accessoria (art. 17-quater). Solo nel primo caso si prescinde da qualsivoglia verifica sulla colpevolezza dell’autore della violazione, stante la finalità cautelare dell’intervento. La circostanza che per talune tipologie di pubblici esercizi, quali quelli di somministrazione di alimenti e bevande, sia da tempo intervenuta una distinta legislazione di settore, anche a livello nazionale (l. n. 287 del 1991) rende a questo riguardo particolarmente sensibile la scelta del legislatore di non abrogare comunque il sistema sanzionatorio previsto dal T.u.l.p.s., per la evidente finalità di conservare una qualche rilevanza alla vecchia categoria della autorizzazioni di polizia, tipicamente riconducibili allo stesso: pretermettendo tuttavia le conseguenti problematiche di potenziale duplicazione di sanzioni, anche accessorie, in tal modo previste, in dispregio del principio del ne bis in idem.   

 Si pensi al recente revirement della giurisprudenza amministrativa in materia di perentorietà dei termini dei procedimenti sanzionatori facenti capo all’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente – ARERA. Se in linea generale, infatti, il carattere della perentorietà può essere riconosciuto a una scadenza temporale solo da un’espressa norma di legge, sicché, in assenza di una specifica disposizione che lo preveda come tale, esso va necessariamente inteso come sollecitatorio o ordinatorio e il suo superamento non determina l’illegittimità dell’atto, la particolarità del procedimento sanzionatorio rispetto al paradigma del procedimento amministrativo ha opportunamente portato a diverse conseguenze, attesa la stretta correlazione sussistente tra il rispetto di quel termine e l’effettività del diritto di difesa, avente protezione costituzionale (nel combinato disposto degli articoli 24 e 97 Cost.). Difatti, nei procedimenti sanzionatori consentire l’adozione del provvedimento finale entro il lungo termine prescrizionale (cinque anni, ex art. 28 della l. n. 689 del 1981), anziché nel rispetto del termine specificamente fissato per la sua adozione, equivarrebbe a esporre l’incolpato a un potere sanzionatorio di fronte al cui tardivo esercizio potrebbe essergli difficoltoso approntare in concreto adeguati strumenti di difesa, non adeguatamente tutelate dal generico richiamo ai principi sul giusto procedimento di cui alla l. n. 241 del 1990. L’esercizio di una potestà sanzionatoria, di qualsivoglia natura, non può dunque restare esposta sine die all’inerzia dell’autorità preposta al procedimento, per elementari esigenze di sicurezza giuridica e di prevedibilità in tempi ragionevoli delle conseguenze dei propri comportamenti (Cons. Stato, sez. VI, 12 gennaio 2021, n. 584; id., 17 marzo 2021, nn. 2307, 2308 e 2309, che hanno esteso i principi già affermati con riferimento ad altre Autorità – Cons. Stato, sez. VI, 23 marzo 2016, n. 1199; id., 6 agosto 2013, n. 4113; 29 gennaio 2013, n. 542, con riferimento alla Banca d’Italia; sez. VI, 4 aprile 2019, n. 2289, per l’ANAC; sez. VI, 17 novembre 2020, n. 7153, per l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni; sez. VI, n. 512 del 2010, cit. sub nota 6, con riferimento all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che ha tuttavia precisato come il termine di 90 giorni previsto dall’art. 14, comma 2, della l. n. 689 del 1981 per la contestazione dell’illecito, inizia a decorrere solo dal momento in cui è compiuta o si sarebbe dovuta ragionevolmente compiere, anche in ragione della complessità della fattispecie, l’attività amministrativa intesa a verificare l’esistenza dell’infrazione, comprensiva dei suoi elementi oggettivi e soggettivi.     

 Il sistema sanzionatorio previsto dal d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, c.d. Nuovo Codice della Strada, costituisce un caso paradigmatico di coesistenza di sanzioni accessorie ad illeciti penali e ad illeciti amministrativi, essendo previste condotte punite con sanzioni amministrative pecuniarie ed altre costituenti reato, con riferimento a ciascuna delle quali sono fornite anche importanti indicazioni procedurali per l’organo di polizia stradale chiamato ad intervenire.   

 Sul punto v. G. Napolitano, Manuale dell’illecito amministrativo, Sant’Arcangelo di Romagna, 2021, p. 318 ss.; G. Crespaldi – E. Comi, Le sanzioni amministrative accessorie, in La sanzione amministrativa, principi generali, Torino, 2011.  

 Costituiscono una generalizzata eccezione le già ricordate violazioni in materia di circolazione stradale, caratterizzate da una sorta di anticipazione immediata degli effetti della sanzione, che talvolta ne esauriscono la portata afflittiva, talaltra necessitano di formalizzazione nell’atto di concreta irrogazione da parte dell’autorità competente. 

 Si pensi a quanto già detto sub nota 7 in ordine agli illeciti conseguiti alla depenalizzazione del T.U.L.P.S. ad opera del d.lgs. 13 luglio 1994, n. 480. In taluni casi peraltro l’inquadramento del provvedimento interdittivo in termini cautelari o sanzionatori è tutt’affatto agevole. Si pensi ancora a quanto previsto dall’art. 666 c.p. con riferimento alle attività di spettacolo senza autorizzazione (originario reato ora depenalizzato dal d.lgs. 30 dicembre 1999, n. 507) per le quali è prevista la cessazione, senza ulteriori esplicitazioni procedurali, sicché se ne può immaginare l’irrogazione anche con ordine verbale ovvero formalizzato nel relativo atto di accertamento. La sua obbligatorietà, per quanto sviluppato nel prosieguo nel testo, finirebbe per impattare anche sul regime delle competenze, laddove lo si inquadri quale sanzione e non quale misura cautelare, come invece ritiene chi scrive. 

 Sul tema v. fra i tanti M. Allena, La sanzione amministrativa tra garanzie costituzionali e principi CEDU: il problema della tassatività-determinatezza e la prevedibilità, in federalismi, n. 4/2017.. 

 In materia, da ultimi, in dottrina, S. Lucattini, Le sanzioni a tutela del territorio, Torino, 2022 e M.A. SANDULLI, voce Edilizia, in Funzioni amministrative, volume de “I tematici” dell’Enciclopedia del diritto, Milano, 2022, leggibile anche, in versione più ampia e aggiornata, in Riv. giur. edil. 2022. 

 Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 4 novembre 2021, n. 7380; id., 3 febbraio 2020, n. 864; in senso contrario, v. Cons. Stato, sez.VI, 20 settembre 2017, n. 4400. Sul tema dell’applicabilità delle misure sanzionatorie in materia edilizia e della buona fede del terzo acquirente o, più in generale, del proprietario non responsabile dell’attività illecita, si richiama l’orientamento giurisprudenziale, che trae spunto dalla sentenza di Corte Costituzionale del 15 luglio 1991, n. 345, sviluppatosi in materia di acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area sulla quale insiste l’opera abusiva nel caso di inottemperanza dell’ordine di demolizione, di cui all’art. 31 del D.P.R. 380/2001. Secondo l’indicata giurisprudenza amministrativa la sanzione acquisitiva al patrimonio dell’ente, a differenza di quella demolitoria volta al ripristino dello stato dei luoghi, non può essere comminata nei confronti del proprietario del fondo incolpevole, perché rimasto del tutto estraneo, dell’abuso edilizio. Da ciò discende la necessità per l’applicazione delle sanzioni amministrative privative della proprietà del bene, che non si palesino meramente ripristinatorie rispetto all’abuso perpetrato, di un elemento soggettivo almeno di carattere colposo da parte del soggetto proprietario che subisce la sanzione.

 Sul tema dell’applicabilità delle misure sanzionatorie in materia edilizia e della buona fede del terzo acquirente o, più in generale, del proprietario non responsabile dell’attività illecita, si richiama l’orientamento giurisprudenziale, che trae spunto dalla sentenza di Corte costituzionale del 15 luglio 1991, n. 345, sviluppatosi in materia di acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell’area sulla quale insiste l’opera abusiva nel caso di inottemperanza dell’ordine di demolizione, di cui all’art. 31 del d.P.R. n.380/2001. Secondo l’indicata giurisprudenza amministrativa la sanzione acquisitiva al patrimonio dell’ente, a differenza di quella demolitoria volta al ripristino dello stato dei luoghi, non può essere comminata nei confronti del proprietario del fondo incolpevole, perché rimasto del tutto estraneo, dell’abuso edilizio. Da ciò discende la necessità per l’applicazione delle sanzioni amministrative privative della proprietà del bene che non si palesino meramente ripristinatorie rispetto all’abuso perpetrato, di un elemento soggettivo almeno di carattere colposo da parte del soggetto proprietario che subisce la sanzione.

 Sulla distinzione tra revoca in senso proprio e le altre figure così impropriamente qualificate nella prassi delle amministrazioni pubbliche e negli stessi testi legislativi, che in realtà hanno carattere sanzionatorio o decadenziale, appunto, in quanto trovano la loro fonte nella disciplina propria del rapporto o comunque connessa al rilascio del titolo (norma di legge, o regolamento, capitolato, convenzione, disciplinare, ecc.), v. V. Domenichelli, La revoca del provvedimento, in Codice dell’azione amministrativa a cura di M.A. Sandulli, Milano, 2017, con aggiornamento di M. Sinisi, in particolare p. 1062.  

 A ben vedere la sistematizzazione della complessa materia della decadenza da parte dell’Adunanza plenaria risente forse dell’eccesso di sintesi con la quale si intende delimitare quella di specifico interesse, sicché non è da condividere il richiamo all’evenienza di una decadenza quale provvedimento di secondo livello con efficacia ex tunc, anziché ex nunc, come tipico della stessa. Per la distinzione tra tale ulteriore revoca in senso atecnico, meglio definita quale rimozione o caducazione, che tende a rimuovere con effetto ex tunc un atto inopportuno ab origine e abrogazione, con effetto ex nunc, avuto riguardo ai provvedimenti ad efficacia durevole, v. A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1984, p. 702 ss.; Benvenuti F., Appunti di diritto amministrativo, Padova, 1987, p. 157. 

 L’esatto inquadramento delle misure adottate dall’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente – ARERA e della disciplina ad esse applicabile è tutt’affatto che semplice e ne è riprova il recente – e condivisibile – revirement giurisprudenziale in materia di perentorietà dei termini del relativo procedimento “sanzionatorio”. Se in linea generale, infatti, il carattere della perentorietà può essere riconosciuto a una scadenza temporale solo da un’espressa norma di legge, sicché, in assenza di una specifica disposizione che lo preveda come perentorio, il termine va inteso come sollecitatorio o ordinatorio e il suo superamento non determina l’illegittimità dell’atto, tuttavia la particolarità del procedimento sanzionatorio rispetto al paradigma del procedimento amministrativo conduce a diverse conseguenze, attesa la stretta correlazione sussistente tra il rispetto di quel termine e l’effettività del diritto di difesa, avente protezione costituzionale (nel combinato disposto degli articoli 24 e 97 Cost.). Difatti, nei procedimenti sanzionatori consentire l’adozione del provvedimento finale entro il lungo termine prescrizionale (cinque anni, ex art. 28 della l. n. 689 del 1981), anziché nel rispetto del termine specificamente fissato per la sua adozione, equivarrebbe a esporre l’incolpato a un potere sanzionatorio di fronte al cui tardivo esercizio potrebbe essergli difficoltoso approntare in concreto adeguati strumenti di difesa. L’esercizio di una potestà sanzionatoria, di qualsivoglia natura, non può dunque restare esposta sine die all’inerzia dell’autorità preposta al procedimento, per elementari esigenze di sicurezza giuridica e di prevedibilità in tempi ragionevoli delle conseguenze dei propri comportamenti (Cons. Stato, sez. VI, 12 gennaio 2021, n. 584; id., 17 marzo 2021, nn. 2307, 2308 e 2309, che hanno esteso i principi già affermati con riferimento ad altre Autorità – Cons. Stato, sez. VI, 23 marzo 2016, n. 1199; id., 6 agosto 2013, n. 4113; 29 gennaio 2013, n. 542, con riferimento alla Banca d’Italia; sez. VI, 4 aprile 2019, n. 2289, per l’ANAC; sez. VI, 17 novembre 2020, n. 7153, per l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni).

  Sui poteri di controllo del GSE cfr. da ultimo lo studio critico di A. Coiante, I poteri del GSE nell’ambito dell’erogazione degli incentivi per la produzione di energia da fonte rinnovabile, in Federalismi, n. 17/2022 e ivi ampi richiami di e di giurisprudenza.

  Vero è che nel caso di specie il legislatore finisce per attribuire rilievo all’inerzia protratta nel tempo dell’operatore economico, sì da attribuirle il significato di rinuncia implicita al titolo, al pari di quanto avviene, mutatis mutandis, in caso di mancato avvio dei lavori entro il termine normativamente dato dal rilascio del permesso di costruire. La stretta connessione, tuttavia, esistente fra titolarità della concessione di suolo pubblico e legittimazione all’esercizio della vendita fa sì che a tale decadenza/rinuncia consegua automaticamente la revoca/sanzione dell’autorizzazione, astrattamente riferibile, peraltro, anche ad altri posteggi ovvero all’esercizio dell’attività in forma itinerante.   

 Ma non necessariamente: si pensi all’occupazione temporanea per l’effettuazione di un trasloco, o per l’installazione di un ponteggio funzionale all’effettuazione di lavori edilizi sull’immobile prospiciente. 

 Cfr. Cass., SS.UU., 11 febbraio 2011, n. 3811 e 3813. Partendo dal richiamato assunto che supera ampiamente la tradizionale sistematica codicistica, i giudici di legittimità reinterpretano il concetto di demanialità e auspicano politiche amministrative di tipo orizzontale che coinvolgano i cittadini nella gestione dei beni funzionali al soddisfacimento degli interessi della collettività. A monte, sotto il profilo testuale, l’art. 822 c.c. ricomprende nel cosiddetto demanio marittimo il lido del mare, la spiaggia, le rade e i porti ma nulla dice delle lagune, ossia gli specchi d’acqua in immediata vicinanza al mare, la cui natura demaniale è stata riconosciuta ogni qual volta vi sia la libera comunicazione con esso. Per un approfondimento sulla tematica si veda G.P. Cirillo, Il diritto di accesso al mare, in www.giustizia.amministrativa.it

 Cfr. art. 190 del d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 del 2016, Codice dei contratti pubblici, che ha assorbito, in particolare dopo il così detto “correttivo”, d.lg. 19 aprile 2017, n. 56, la disposizione già contenuta nell’art. 24 del d.l. 12 settembre 2014, n.133, cosiddetto ‘sblocca Italia’, convertito, con modificazioni, dalla l. 11 novembre 2014, n. 164. Al riguardo v. A. Manzione, “Dal baratto amministrativo al partenariato sociale e oltre nel solco della atipicità”, in AA.VV., La co-città, a cura di P. Chirulli e C. Iaione, Iovene ed., 2018. 

  Per quanto, infatti, talvolta si utilizzi in maniera impropria il riferimento all’autorizzazione, correttamente la legislazione nazionale, anche tributaria, riconduce il relativo titolo a siffatta dizione, con quanto ne consegue in relazione all’applicabilità dei medesimi principi elaborati con riferimento alle concessioni demaniali marittime in applicazione della c.d. Direttiva Bolkestein.  

  Sulla materia è ormai nota la ricostruzione dei principi comunitari, seppure con specifico riferimento al tema delle concessioni demaniali marittime, contenuta nelle sentenze della Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 9 novembre 2021, n. 17 e 18, cui ha fatto seguito un corposo dibattito dottrinario (v. ex multis   i contributi di M.A. Sandulli, F. Ferraro, G. Morbidelli, M. Gola, R. Dipace, M. Calabrò, E. Lamarque, R. Rolli – D. Sammarro, E. Zampetti, G. Iacovone, M. Ragusa, P. Otranto, B. Caravita di Toritto – G. Carlomagno. In Diritto e Società, n. 3 del 2021 dedicato a La proroga delle “concessioni balneari” alla luce delle sentenza 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria. Per una valorizzazione della tutela storico-identitaria delle attività economiche ospitate nei relativi locali della Galleria Vittorio Emanuele di Milano, v. ex multis Cons. Stato sez. V. 3 novembre 2021, n. 7340, nonché, nella stessa direzione, 3 settembre 2018, n. 5157, secondo cui «il principio della concorrenza deve recedere a fronte dell’interesse imperativo generale della tutela delle attività storiche e di tradizione che occupano immobili di proprietà pubblica, le quali contribuiscono a salvaguardare ed a conservare il patrimonio storico e artistico delle città». In tali circostanze si è ritenuto altresì legittimo il criterio oggettivo scelto dal Comune per la determinazione del canone, non determinato a seguito di una procedura concorsuale, ove l’offerente più forte avrebbe prevalso, ma « necessaria secondo le risultanze di una dinamica di mercato di cui non può non tenersi conto, anche nell’ottica di valorizzazione virtuosa dei beni pubblici, il rendimento dei quali contribuisce ad incrementare il bilancio dell’amministrazione».  In tali fattispecie il Comune ha dunque garantito agli esercenti le attività storiche il rinnovo senza gara delle loro concessioni demaniali, applicando un canone più che equo e nettamente inferiore rispetto a quello che si sarebbe determinato in seguito ad una procedura concorsuale.

  Parere AS1721 del 15 febbraio 2021 dell’AGCOM, che opera anche un’accurata ricostruzione della normativa di settore, connotata, al pari di quanto avvenuto per le concessioni demaniali marittime, da un regime di reiterata proroga basato sull’assunto che la materia fosse estranea all’ambito di applicabilità della direttiva servizi. In particolare ha ricordato come con l’articolo 1, comma 686, della legge n. 145/2018 (c.d. legge di bilancio 2019) è stato modificato il d.lgs. n. 59 del 2010, di recepimento della Direttiva 2006/123/CE (c.d. Direttiva Servizi o Bolkestein), sottraendo espressamente l’intero settore del commercio al dettaglio su aree pubbliche dall’applicazione della stessa (artt. 7, lett. f-bis, e 16, comma 4-bis, del d.lgs. n. 59/2010, che escludono l’applicazione delle disposizioni normative che imponevano di individuare i prestatori all’esito di una procedura selettiva, secondo criteri trasparenti e non discriminatori, stabilendo una durata dei titoli autorizzatori limitata e non soggetta a rinnovo automatico).  Il d.l. n. 34/2020 (c.d. decreto Rilancio), convertito in legge n. 77/2020, ha poi prorogato al 2032 le concessioni di posteggio per il commercio su aree pubbliche in scadenza (articolo 181, comma 4-bis), nonché previsto che eventuali posteggi liberi, vacanti o di nuova istituzione andassero assegnati «in via prioritaria e in deroga a qualsiasi criterio» agli aventi titolo, senza l’espletamento di alcuna procedura ad evidenza pubblica (articolo 181, comma 4-ter). Tali previsioni hanno poi trovato ulteriore conferma nei punti 6, 7 e 9 dell’Allegato A al Decreto del Ministero dello Sviluppo Economico del 25 novembre 2020, recante le previste Linee Guida. 

  Dell’intera materia si occupa l’art. 2 del d.d.l. concorrenza 2021, AS 2469. 

  Cfr. T.A.R. Lazio, Roma, sez. II ter, 18 gennaio 2022, n. 530, ove peraltro si mutua anche il regime transitorio ideato dall’Adunanza plenaria, in quanto «consapevole del notevole impatto (anche sociale ed economico) che tale immediata non applicazione può comportare, specie in un contesto caratterizzato da un regime di proroga che è frutto di interventi normativi stratificatisi nel corso degli anni». Il giudice di prime cure ha dunque affermato che « Alla stessa stregua, il Collegio ritiene di dover modulare gli effetti di questa pronuncia di rigetto, precisando che le concessioni cui si riferiscono i provvedimenti impugnati mantengono efficacia fino al 31 dicembre 2023, previo accertamento degli ulteriori presupposti richiesti dalla normativa vigente, fermo restando che, oltre tale data, anche in assenza di una disciplina legislativa, esse cesseranno di produrre effetti, nonostante qualsiasi eventuale ulteriore proroga legislativa che dovesse nel frattempo intervenire, la quale andrebbe considerata senza effetto perché in contrasto con le norme dell’ordinamento dell’U.E. e fermo restando che, nelle more, l’amministrazione ha il potere/dovere di avviare le procedure finalizzate all’assegnazione delle concessioni nel rispetto dei principi della normativa vigente, come delineati dalle sentenze dell’Adunanza Plenaria n. 17 e n. 18 del 2021». In pari data vedi anche nn. 537 e 539. Cfr. altresì nella stessa direzione T.A.R. Sardegna, sez. II, 28 dicembre 2021, n. 865. Per tutte e quattro le sentenze è pendente appello.  

 Cfr. Cons. Stato, sez. V. 12 maggio 2016, n. 1926. 

 Cfr. Cass. Ord. Sez. 5 n. 2552 del 2018; Cass. Ord. SS.UU. n. 24967 del 2017; id. n. 61 e n. 11134 del 2016; id. n. 21950 del 2015; Corte Costituzionale n. 64/2008. 

  V. Cons. Stato, sez. VI, 26 gennaio 2015, n. 336. 

 L’ordinanza richiama anche la assai più risalente Cass., n. 134 del 2001, che ha escluso la giurisdizione del giudice amministrativo in ragione del paradigma normativo applicabile, ovvero l’art. 22 della l.r. Emilia Romagna n. 17 del 1991, nonché n. 14633 del 2011, ove è precisato che in caso di sanzione alternativa o autonoma rispetto a quella pecuniaria è rilevante, ai fini della qualificazione della natura e funzione della sanzione, verificare se essa sia «il mezzo prioritario per attuare la legge violata».

 

 Cfr. T.A.R. Lazio, Roma, sez. II ter, 25 marzo 2021, n. 3699; id., 22 dicembre 2020, n. 13868; T.A.R. Sicilia, Catania, sez. III, 12 ottobre 2020, n. 2559.

 La disposizione opera un non del tutto chiaro distinguo tra le esigenze di “ordine pubblico”, che necessitano l’intervento dell’apposita Autorità preposta alla relativa tutela e quelle di “sicurezza pubblica”, che invece consente sempre al Prefetto di intervenire. Il concetto di ordine pubblico scompare peraltro con il d.l. n. 14 del 2017, (che viene richiamato solo nell’art. 11, ma limitatamente al settore delle occupazioni arbitrarie di immobili) a favore della diversa nozione di sicurezza pubblica, sub specie di sicurezza urbana.  In passato la Corte costituzionale aveva più volte precisato come la sicurezza pubblica si riferisce all’integrità fisica e all’incolumità delle persone e si sostanzia in un concetto differente rispetto a quello più ampio di ordine pubblico, richiamato nell’art. 2 Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza (la sicurezza pubblica si riferisce all’integrità fisica e all’incolumità delle persone e si sostanzia in un concetto differente rispetto a quello più ampio di ordine pubblico, richiamato nell’art. 2 Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza). 

 Ragioni di sintesi inducono a non approfondire oltre la tematica del rapporto tra le due fattispecie, che la giurisprudenza penale ha talvolta ritenuto sussistere in concorso tra di loro, essendo diversa l’obbiettività giuridica delle due norme, la prima in quanto posta a tutela del patrimonio, l’altra della sicurezza della circolazione stradale.

 Per la ricostruzione della genesi e dei contenuti all’attualità della dizione di sicurezza urbana si veda A. Manzione, Potere di ordinanza e sicurezza urbana, in Fedarlismi.it, 13 settembre 2017, n. 17. 

 La possibilità di applicare l’ordine di allontanamento alle aree destinate a fiere, mercati o pubblici spettacoli è stata inserita con il d.l. 4 ottobre 2018, n. 113, convertito con modificazioni dalla l. 1 dicembre 2018, n. 132. Per completezza va ricordato che l’ordine di allontanamento è previsto anche, senza necessità di apposita previsione regolamentare: 

· quando lo stazionamento avviene nelle aree interne delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e delle relative pertinenze; 

· in “aggiunta” alle sanzioni previste per le fattispecie di cui agli artt. 688 c.p. (Ubriachezza), 726 c.p. (Atti contrari alla pubblica decenza. Turpiloquio), 29 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114 (Violazioni in materia di commercio su aree pubbliche), 7, comma 15-bis, del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (parcheggiatore o guardiamacchine abusivo), 1-sexies del d.l. 24 febbraio 2003, n. 28, convertito con modificazioni dalla l. 24 aprile 2003, n. 88 (c.d. “bagarinaggio”).

 Con il risultato che l’ordine di allontanamento “accede” a tutte le ulteriori fattispecie di illecito esplicitamente menzionate, ovvero a generici comportamenti impeditivi della fruizione collettiva del suolo, quale tipicamente la sua occupazione nei luoghi individuati a livello regolamentare, ove potrebbe addirittura trovare spazio una procedimentalizzazione operativa della relativa applicazione. 

 La disposizione si completa con la riconosciuta possibilità di “riesame” ex art. 21-quinquies della l. n. 241 del 1990 delle autorizzazioni e delle concessioni di suolo pubblico non ritenute più compatibili con le esigenze di tutela fatte proprie dalla norma, anche in deroga alla disciplina regionale.  

 Diversa è la questione con riferimento al c.d. DASPO urbano, ovvero il divieto di accesso indirizzato ad una singola persona in alcune zone su ordine del Questore. Esso viene definito come fattispecie a formazione progressiva, nel senso che l’ordine man mano che passa il tempo assume caratteristiche diverse. Dopo una prima fase necessaria in cui il contravventore è raggiunto dal provvedimento di allontanamento dell’organo accertatore e dalla sanzione amministrativa irrogata dal sindaco, si apre una fase eventuale, con finalità preventiva e non punitiva, in cui il Questore, in presenza di determinati presupposti può confermare il divieto di ingresso in una zona urbana estendendolo fino a 2 anni. Si tratta di un provvedimento collegato strumentalmente con quello dell’organo accertatore ma autonomamente impugnabile perché autonoma è la sua natura.

 Cons. Stato, sez. V, 14 giugno 2017, n. 2892. 

 Cons. Stato, sez. V, 11 maggio 2017, n. 2198.

 L’art. 8 della l. n. 689 del 1981, tuttavia, pare limitarlo ai soli casi di sanzioni amministrative pecuniarie, almeno secondo la lettura restrittiva dell’intero sistema dell’illecito amministrativo di cui ampiamente nel testo.  

 V. A. Procaccino, Ne bis in idem: un principio in evoluzione- Assestamenti e osmosi nazionali sul bis in idem in Giur. It., 2019, 6, 1957; D.Cimadomo, Ne bis in idem: un principio in evoluzione-Illecito amministrativo e reato: un’apparente ipotesi di bis in idem, in Giur. It., 2019, 6, 1457; B. Lavarini, Corte europea dei diritti umani e ne bis in idem; la crisi del “doppio binario”, in Dir. Pen. E Processo, 2014, 12, Supplemento, 82 (commento alla normativa). 

 Cass., sez. III penale, 20 gennaio 2022, n. 2245.

 Per un’interessante ricostruzione della disciplina vigente con riferimento alle strutture lato sensu denominate dehors utilizzate per lo più per la somministrazione di alimenti e bevande all’aperto, v. Cons. Stato, sez. VI, 4 gennaio 2022, n. 32, relativo alle c.d. “pergotende”. L’art. 6 del d.P.R. n. 380/2001 elenca una serie di opere eseguibili senza alcun titolo abilitativo, fatte salve le prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali: tale elencazione, consentendo la realizzazione di interventi edilizi che non comportano/consentono alcun tipo di controllo da parte dell’autorità pubblica, deve ritenersi in sé tassativo, ferma restando l’eventuale elasticità delle definizioni utilizzate, che può richiedere un’opera interpretativa del giudicante. In particolare va ricordata la definizione di opera stagionale (lett. e-bis), che presuppone un tempo di installazione correlato all’utilizzo e comunque non superiore a 180 giorni, incluso montaggio e smontaggio; lett. e-ter), consistenti in opere di pavimentazione e di finitura di spazi esterni, che non può mai ricomprendere le strutture soprastanti una pedana, i cui elementi portanti sono costituiti da pilastri, travi e tetto; lett. e-quinquies), ovvero “area ludica senza fini di lucro” o “elemento di arredo” di area pertinenziale all’edificio, cui non è mai riconducibile un’area destinata ad ospitare la clientela dell’esercizio, perciò destinata ad un fine non ludico né di mero arredo, ma invece di lucro. Quanto sopra trova conferma nelle previsioni del D.M. 2 marzo 2018, pubblicato nella G.U. 7 aprile 2018 n.81, di “Approvazione del glossario contenente l’elenco non esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera”, ai sensi dell’articolo 1, comma 2 del citato d. lgs. 222/2016, il quale individua tra le principali opere di edilizia libera, riconducibili all’art. 6, comma 1, lett. e-quinquies), singoli arredi (quali barbecue, fioriere, fontane, muretti, panche), giochi per bambini, pergolati di limitate dimensioni, ricoveri per animali domestici e da cortile, ripostigli per attrezzi, sbarre d’accesso, separatori, stalli per biciclette, elementi divisori e “tende, tende a pergola, pergotende, coperture leggere di arredo”; e tra le opere riconducibili all’art. 6, comma 1, lett. e-bis), i gazebo, gli stand fieristici, i servizi igienici mobili, elementi di esposizione vari, aree di parcheggio, tensostrutture, pressostrutture e assimilabili. La norma va integrata con le previsioni dell’art. 3, comma 5, che definisce gli interventi di nuova costruzione, dai quali sono stralciati quelli volti ad edificare manufatti “diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”, nonché “tende” e “ unita’ abitative mobili con meccanismi di rotazione in funzione, e loro pertinenze e accessori, che siano collocate, anche in via continuativa, in strutture ricettive all’aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, che non posseggano alcun collegamento di natura permanente al terreno e presentino le caratteristiche dimensionali e tecnico-costruttive previste dalle normative regionali di settore ove esistenti”. 

 

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