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La questione dei mutui agevolati per i dipendenti delle banche, stangati con conguagli fiscali che arrivano ad azzerare le buste paga, è rimasta (inspiegabilmente) fuori della manovra varata dal governo.

Nonostante le pressioni della Fabi e degli altri sindacati bancari, il governo non ha messo mano alle regole del fisco per risolvere un problema che interessa 70mila addetti degli istituti di credito italiani ovvero coloro che hanno avuto la possibilità di ottenere mutui agevolati dai propri datori di lavoro, ma, con l’aumento dei tassi d’interesse dell’ultimo anno, adesso fanno i conti con finanziamenti trasformati di fatto in una sorta di trappola tributaria.

Organizzazioni sindacali e Abi, a più riprese, negli scorsi mesi e anche più recentemente, hanno sensibilizzato tanto il governo quanto le forze politiche in Parlamento, sia quelle della maggioranza sia quelle dell’opposizione.

Al viceministro dell’Economia, Maurizio Leo, è arrivata, nei giorni scorsi, una richiesta di incontro: obiettivo di sindacati e Abi è ottenere una correzione della norma tributaria che regola i cosiddetti fringe benefit dei prestiti concessi dalle banche ai lavoratori: si tratta di intervenire sul meccanismo di calcolo.

Le norme in vigore stabiliscono che l’ammontare del beneficio si determina, anno per anno, prendendo da un lato gli interessi effettivamente pagati con le rate e dall’altro quelli calcolati con il tasso base della Bce (che a fine 2022 era 2,5% e oggi è al 4,5%). Proprio l’aumento del costo del denaro deciso dalla Bce è motivo di facile sforamento delle soglie e qui si apre un triplice fronte: nel 2022 il tetto era 600 euro, per il 2023 si distingue tra chi non ha figli a carico (258 euro) e chi li ha (3.000 euro), per il 2024 sarà, legge di bilancio alla mano, 1.000 per i single e 2.000 euro per chi è genitore. L’incremento dei tassi d’interesse peggiora la situazione e le soglie più alte non sono sufficienti ad arginare il prelievo fiscale.

Il segretario generale della Fabi, Lando Maria Sileoni, si è personalmente interessato della vicenda e durante il tavolo per il rinnovo del contratto nazionale ha detto chiaramente alle banche che la faccenda va comunque risolta. Lo stesso sindacato Fabi, in una simulazione, spiega come si crea il problema con un’ipotesi di un mutuo da 150mila euro, ventennale, contratto da un dipendente bancario ad un tasso agevolato dell’1 per cento. Per questo mutuo il bancario paga una rata annuale agevolata di 8.312 euro. La stessa rata, calcolata al tasso Bce vigente del 4,5%, porterebbe al pagamento di una rata annua di 11.531 euro. Gli interessi agevolati sarebbero pari nell’anno a 6.650 euro mentre quelli ‘a tasso Bce’ arriverebbero a 9.225 euro. La ‘tagliola Irpef’, così definita nella simulazione, scatta su questi valori: la differenza nell’applicazione dei due tassi è di 2.575 euro e il 50%, che rappresenta la base di calcolo per i fringe benefit, è di 1.288 euro. È su questo importo quindi che il bancario considerato nell’esempio, nell’ipotesi in cui non abbia figli a carico, paga l’Irpef.

In Parlamento l’interesse è trasversale. Interrogazioni, sia alla Camera sia al Senato, sono state presentate un po’ da tutti i gruppi, da Italia Viva al Movimento 5 Stelle, da Fratelli d’Italia al Partito democratico. Ieri si è aperta una luce: un emendamento di Fdi al decreto lege fiscale, all’esame della Commissione bilancio di Palazzo Madama, spiana la strada a una soluzione definitiva. Adesso spetta al Parlamento non deludere le aspettative.

 

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