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TRIBUNALE DI NAPOLI

Sentenza 7 gennaio 2014

Fatto 


Il G.E., letti gli atti e sciolta la riserva di cui all’udienza del 6/12/2013 ;


rilevato che il debitore esecutato Telecom Italia s.p.a. ha proposto in udienza opposizione alla esecuzione affermando che antecedentemente alla notifica del pignoramento, eseguita il 6/11/2013, aveva trasmesso al creditore procedente una nota con la quale lo informava che, al fine di evitare la azione esecutiva, stava dando immediato corso al pagamento dovuto in base al titolo esecutivo;


che nonostante ciò il procedente aveva dato luogo ugualmente alla espropriazione;


che l’adempimento, preannunciato con la nota del 9/10/2013, quando il precetto era stato notificato il 2/10/2013, ha poi avuto effettivamente luogo con un assegno datato 8/11/2013 per un importo pari alla intera somma precettata;


che dunque il pagamento è avvenuto dopo l’esercizio della azione esecutiva, ma che quest’ultima è stata esercitata senza attendere l’adempimento che pure era stato preannunciato;


che l’adempimento in parola doveva ritenersi ormai prossimo, attesa la qualità di soggetto solvibile della Telecom Italia s.p.a., circostanza questa che rendeva attendibile il suo proposito, poi di fatto realizzato;


che tale comportamento del creditore, consistente nell’esercizio della azione esecutiva nonostante che il pagamento fosse di lì ad essere effettuato, ferma restando la sua facoltà di esercitare l’azione esecutiva in base al titolo, ha violato il principio di buona fede e correttezza oggettivi di cui all’art. 1175 c.c. nonchè il dovere di lealtà processuale di cui agli artt. 88 e 92 comma 1 c.p.c.;


che la giurisprudenza di legittimità anche a sezioni unite ha valorizzato il principio della buona fede nella esecuzione delle obbligazioni specificando che non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, in quanto tale scissione del contenuto della obbligazione, operata dal creditore per sua esclusiva utilità con unilaterale modificazione aggravativa della posizione del debitore, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l’esecuzione del contratto ma anche nell’eventuale fase dell’azione giudiziale per ottenere l’adempimento, sia con il principio costituzionale del giusto processo, traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale ( v. sul punto Cass. civ. sez. un., 15/11/2007, n. 23726 );


che parimenti ai sensi dell’art. 1206 c.c. il creditore deve compiere quanto è necessario affinchè il debitore possa adempiere l’obbligazione ( cfr. sulla questione Cass. civ. sez. II, 22/11/2013, n. 26260 );


che in una fattispecie simile a quella considerata nella presente sede la giurisprudenza di legittimità ha considerato esistente la violazione del principio della buona fede per l’appunto in relazione alle attività funzionali all’esercizio della pretesa esecutiva effettuate con modalità non rispettose del principio di lealtà processuale perché specifiche circostanze consigliavano di non procedere oltre ed ha statuito la non debenza delle spese dovute in relazione a tali attività ( v. sulla questione Cass. civ. sez. III, 2/12/2008, n. 28627 );


che la situazione delineata nella vicenda esaminata dal Giudice di legittimità con l’ultima pronuncia sopra menzionata è simile a quella in esame, in quanto non vi era ragione alcuna per il creditore, a fronte della intimazione del pagamento della somma di euro 236,40, di temere che Telecom Italia s.p.a., società notoriamente dotata di una liquidità notevole e costante proveniente dalla sua numerosa clientela che le consente di far fronte ad adempimenti ben più significativi e che aveva inviato una nota con la quale specificava di aver dato corso alle procedure per il pagamento, non avrebbe soddisfatto la sua pretesa;


ritenuto che il comportamento del creditore integri un abuso del diritto e che le spese della procedura espropriativa non siano dovute, mentre quelle relative al precetto nonché la sorta capitale e gli accessori del credito sono già state pagate, e che pertanto sussistano gravi motivi per sospendere l’esecuzione all’esito della cognizione sommaria esperita sulla relativa richiesta a norma degli artt. 185 disp. att. c.p.c. e 737 ss. c.p.c.;


rilevato che la competenza a conoscere del merito della causa di opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. proposta dal debitore mediante memoria depositata alla udienza del 6/12/2013 di fronte al G.E. nell’ambito del presente procedimento di esecuzione ( cfr. sul punto Cass. civ. sez. III, 7/10/1985, n. 4840 nonché Cass. civ. sez. un., 15/10/1998, n. 10187 ) deve essere attribuita ratione valoris al Giudice di Pace, in considerazione dell’ammontare della pretesa per la quale procede il creditore, così come quantificata nel contesto dell’atto di pignoramento ;


che le spese della fase sommaria della opposizione sulla richiesta di sospensione possono essere liquidate dal G.E. e in tal caso seguono la soccombenza ex art. 91 comma 1 c.p.c. ( cfr. sul punto in motivazione Cass. civ. sez. III, 23/7/2009, n. 17266 nonché Cass. civ. sez. III, 27/10/2011, n. 22503 );


che infatti la cognizione piena a seguito della fase camerale del giudizio di opposizione ex art. 185 disp. att. c.p.c. e, quindi, del sub – procedimento di sospensione, è ora, secondo l’art. 616 c.p.c., meramente eventuale, perchè è rimesso alla parte di valutare se iscrivere o meno la causa a ruolo contenzioso e dar corso alla cognizione piena;


che di conseguenza il provvedimento del G.E. che accordi o neghi la sospensione, indipendentemente dalla applicabilità dell’art. 669 septies commi 2 e 3 c.p.c., ha attitudine a definire la vicenda davanti a sè, qualora non segua l’iscrizione a ruolo contenzioso della causa di opposizione, o non segua nel termine perentorio di cui all’art. 616 c.p.c., e, dunque, si presta ad essere ricondotto al concetto espresso dall’art. 91 c.p.c. ( il chiudere il processo davanti a sé );


che le spese della fase camerale seguono la soccombenza ex art. 91 comma 1 c.p.c. e vengono liquidate in considerazione del valore della controversia come da dispositivo, con attribuzione al difensore per anticipo fattone e giusta apposita richiesta formulata in tal senso;


che parimenti può essere pronunciata condanna ex art. 96 comma 3 c.p.c.;


che invero è da interpretare estensivamente il termine “sentenza” – di cui al comma 1 dell’art. 96 c.p.c. ( al quale deve correlarsi l’ipotesi di cui al comma 3 dello stesso articolo, quanto ai presupposti di operatività della responsabilità ex comma 3, che sono la “mala fede” e la “colpa grave” ) – a tutti i provvedimenti che definiscono il procedimento, e dunque anche al provvedimento che, ai sensi dell’art. 624 c.p.c., definisce la fase precedente il merito, alla stregua di un qualsiasi provvedimento provvisorio con ‘merito’ successivo eventuale ( v. sul punto Tribunale Verona 21/3/2011, in Giur. merito 2011, 9, 2161, per il quale la condanna per lite temeraria , prevista dal comma 3 dell’art. 96 c.p.c., come introdotto dalla l. n. 69 del 2009, è applicabile anche nei procedimenti cautelari che si concludono con una pronuncia sulle spese ai sensi degli artt. 669 septies comma 2 e art. 669 octies terzultimo comma c.p.c., nonché Tribunale Pisa 24/10/2011, in Foro it. 2011, 12, I, 3455, secondo cui la proposizione, avverso l’ordinanza emessa nell’ambito di un giudizio possessorio, di un reclamo evidentemente infondato e contenente una “causa petendi” diversa da quella originaria giustifica l’applicazione dell’art. 96 comma 3 c.p.c. );


che ciò deriva proprio dalla circostanza, evidenziata da Cass. civ. 17266/2009 cit., che la fase a cognizione piena dopo la fase camerale è solo eventuale, al di là della natura cautelare o meno della pronuncia;


che nella fattispecie sussistono per l’appunto i presupposti di fatto e di diritto per una pronuncia di condanna ex art. 96 comma 3 c.p.c. nell’ambito della fase sommaria;


che invero l’art. 45, comma 12, L. 18 giugno 2009 n. 69, ha aggiunto un comma 3 all’art. 96 c.p.c. ed in tal modo ha introdotto una vera e propria pena pecuniaria indipendente sia dalla domanda di parte, sia dalla allegazione e dalla prova del danno causalmente derivato alla condotta processuale dell’avversario ( v. sul punto Cass. civ. sez. I, 30/7/2010, n. 17902 );


che si tratta, in altri termini, di una norma che inserisce nell’ordinamento giuridico italiano una forma di danno punitivo o esemplare ( v. Tribunale Piacenza, 7/12/2010 ), per scoraggiare l’abuso del processo in pregiudizio della parte vittoriosa e preservare la funzionalità del sistema giustizia, ciò che esclude la necessità di un danno di controparte, pur se la condanna è prevista a titolo di indennizzo a favore di quest’ultima e non dello Stato ( cfr. Trib. Piacenza, 22/11/2010 ), e che sotto quest’ultimo profilo prevede una pena privata;


che la norma punisce quelle stesse condotte che, pur essendo espressione di un diritto costituzionalmente garantito quale quello di difesa previsto dall’art. 24 comma 1 Cost., possono essere considerate “ingiuste”, cioè contra ius , e tutela in via diretta sia l’interesse pubblico al buon andamento e all’efficienza del servizio della giustizia civile, in applicazione dell’art. 97 comma 1 Cost. e, più in particolare, il principio della ragionevole durata dei processi di cui all’art. 111 comma 2 Cost. ( efficienza e ragionevole durata che dovrebbero essere garantiti dalla diminuzione del contenzioso, mediante l’eliminazione delle cause pretestuose o strumentali ), posto che prescinde dalla esistenza di un danno per la controparte e soprattutto la relativa condanna può essere pronunciata di ufficio ed ha quindi natura afflittiva più che risarcitoria ( l’accentuazione della rilevanza della funzione del nuovo istituto quale presidio a tutela di interessi pubblici è espressa da Trib. Roma, sez. Ostia, sent. 9 dicembre 2010 e Trib. Roma, sent. 11 gennaio 2010, ed in particolare da Trib. Varese, sent. 22 gennaio 2011, nonché da Cass. pen. sez. VI, 11/2/2011, n. 5300 ), sia l’interesse specifico della controparte ad una durata ragionevole del processo al fine di ottenere una pronta ed efficace risposta di giustizia e ad evitare di essere coinvolto in una lite ingiusta, perché l’importo della pena pecuniaria va in suo favore, atteso che già il solo fatto di dovere sostenere un giudizio civile, affrontandone comunque i costi notoriamente non indifferenti e i disagi conseguenti in termini di durata della pendenza e incertezza di soluzione, costituisce un obiettivo pregiudizio;


che può anzi affermarsi che in tanto è legittima la limitazione del diritto costituzionale di difesa in giudizio operata dall’art. 96 comma 3 c.p.c. in quanto è posta a tutela di altri interessi, di natura pubblicistica e di pari rilievo costituzionale, costituiti dalla efficienza della amministrazione della giustizia e dalla ragionevole durata dei processi, cui viene data la prevalenza dalla norma in esame;


che si tratta di interessi valorizzati anche dalle ultime sentenze delle Sezioni Unite civili della Cassazione ( v. in particolare per il principio di ragionevole durata del processo Cass. civ. Sez. Un., 13/6/2011, n. 12898 nonché 26/1/2011, n. 1764 ), rientrando nella discrezionalità del legislatore far prevalere l’uno o l’altro interesse di eguale rango, purchè tale scelta non sia irrazionale ( cfr. sul punto Corte cost. ord. 568/1987 );


che il nuovo rimedio processuale previsto dall’art. 96 comma 3 c.p.c. ha invero una finalità di deterrenza, di deflazione del contenzioso civile strumentale e temerario, e non si limita a ristorare la parte vittoriosa dal pregiudizio subito per essere stata coinvolta in un processo ingiusto;


che tale intento è rivelato non solo dai lavori preparatori ma anche dal precedente legislativo costituito dall’ormai abrogato art. 385 comma 4 c.p.c., come presa d’atto dell’inadeguatezza a tale fine dell’istituto della responsabilità processuale aggravata di cui al comma 1 dell’art. 96 c.p.c. ( anche se da ultimo Cass. civ. sez. III, 23/8/2011, n. 17485, in contrasto con la precedente giurisprudenza di legittimità, è giunta alla conclusione che all’accoglimento della domanda di risarcimento dei danni da lite temeraria in base a quest’ultima norma non osta la omessa deduzione e dimostrazione dello specifico danno subito dalla parte vittoriosa, che non è costituito dalla lesione della propria posizione materiale, ma dagli oneri di ogni genere che questa abbia dovuto affrontare per essere stata costretta a contrastare la ingiustificata iniziativa dell’avversario e dai disagi affrontati per effetto di tale iniziativa, danni la cui esistenza può essere desunta dalla comune esperienza ), nonché dagli elementi costitutivi della fattispecie sopra evidenziati relativi in primo luogo alla pronunciabilità di ufficio ( sulla rilevabilità di ufficio come indice della sussistenza di un interesse pubblico v. Cass. civ. sez. I, 7/4/2000, n. 4376 e Cass. civ. sez. III, sez. III, 27/9/2011 ) e poi alla irrilevanza, ai fini della configurazione della fattispecie di cui al comma 3, di un pregiudizio effettivo per la controparte, derivante dalla lite temeraria;


che la pronuncia ex art. 96 comma 3 c.p.c., che per l’appunto può essere emessa d’ufficio, non ha limite nella determinazione dell’importo massimo della condanna, a differenza di quanto previsto dall’ormai abrogato art. 385 comma 4 c.p.c., ed è discrezionale dunque sia nell’ an che nel quantum;


che essa non abbisogna neppure della preventiva instaurazione del contraddittorio ex art. 101 comma 2 c.p.c., costituendo “posterius” e non “prius” logico della decisione di merito ( cfr. Tribunale di Piacenza, 15/11/2011 );


che l’istituto della condanna ex art. 96 comma 3 c.p.c., per la sua natura ibrida di pena pecuniaria privata e nello stesso tempo finalizzata alla tutela di interessi pubblici, costituisce una assoluta novità per l’ordinamento giuridico italiano, anche rispetto alla precedente previsione, ormai abrogata, dell’art. 385 comma 4 c.p.c., ed è stato seguito dalla nuova formulazione, introdotta con l’art. 27 L. 12/11/2011 n. 183, dell’art. 283 comma 2 c.p.c., per il quale, se l’istanza di sospensione della efficacia esecutiva o della esecuzione della sentenza impugnata è inammissibile o manifestamente infondata, il Giudice, con ordinanza non impugnabile ma revocabile con la sentenza che definisce il giudizio, può condannare la parte che l’ha proposta ad una pena pecuniaria non inferiore ad euro 250 e non superiore ad euro 10.000;


che la pena pecuniaria prevista dall’art. 283 comma 2 c.p.c., in mancanza di ulteriore specificazione, va attribuita allo Stato, ed ha quindi natura di pena pubblica;


che la condanna ex art. 96 comma 3 c.p.c. invece, per quanto già evidenziato, si avvicina all’istituto tipico dei sistemi giuridici di common law, in particolare inglese e statunitense, dei punitive ( o exemplary ) damages ( danni punitivi o esemplari, per i quali, in caso di responsabilità extracontrattuale, al danneggiato viene liquidata una somma maggiore rispetto a quella necessaria per ristorare il danno subito, ove si accerti che il danneggiante abbia agito con dolo o colpa grave ) ;


che la pronuncia in questione presuppone sotto il profilo oggettivo solo la soccombenza, che deve essere totale ed unitaria, e sotto quello soggettivo il requisito della malafede o della colpa grave, che concretizzano la temerarietà della lite, atteso che è rimasto l’inserimento della norma nell’art. 96 c.p.c. senza che il comma 3 abbia aggiunto alla qualificazione della condotta in termini di dolo o colpa grave del comma 1 una ulteriore e/o diversa qualificazione;


che, a voler ritenere il nuovo testo sganciato dal precedente, esso risulterebbe totalmente mancante del riferimento all’elemento soggettivo;


che l’inciso iniziale della norma di cui al comma 3, che esordisce con un “in ogni caso”, va invece inteso nel senso di escludere la necessità della sussistenza di un danno risarcibile nonché dell’istanza di parte, e ciò al fine di differenziare la fattispecie da quella disciplinata dal comma 1, tradizionalmente configurata come una species del genus della responsabilità extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c.;


che nel caso di specie per l’appunto ricorre una ipotesi di mala fede, posto che è stata iniziata una procedura esecutiva senza attendere il preannunciato pagamento con l’evidente scopo di lucrare sulle relative spese e che il creditore in udienza ha resistito alla opposizione del debitore ed alla contestuale richiesta di sospensione;


che non si tratta dunque di punire la mera soccombenza, oppure anche soltanto la soccombenza che consegua ad una condotta processuale reputata “biasimevole” o “rimproverabile” alla stregua di una valutazione del giudicante non ancorata a parametri concretamente verificabili ;


che ai fini della liquidazione in concreto della somma dovuta per la lite temeraria, ovviamente in relazione alla sola fase camerale, in mancanza di parametri normativi certi od obiettivamente verificabili in ordine alla determinazione dell’entità della sanzione, atteso che il rimedio di cui all’art. 96 comma 3 c.p.c. prescinde anche dalla effettività del danno e che quindi la entità del pregiudizio subito dalla controparte non viene in rilievo, se non ai fini della eventuale applicazione della distinta fattispecie risarcitoria di cui al comma 1, mentre è evidente la natura afflittiva della nuova misura ( cfr. sul punto Trib. Foggia 28 gennaio 2011 ), e che la sanzione ha carattere accessorio rispetto alla pronuncia sulle spese, che ne costituisce il presupposto oggettivo, il principale parametro per orientare la discrezionalità del Giudice nella determinazione del quantum debeatur non può che essere l’importo liquidato ai sensi dell’art. 91 comma 1 c.p.c. in favore della parte vittoriosa per le spese di giudizio, sul quale innestare una valutazione basata sul grado e sull’intensità della colpevolezza, vale a dire sul presupposto soggettivo necessario per l’applicazione della sanzione, nonché sulla durata del processo e sul valore della controversia, tenuto conto sempre di tutti gli interessi, pubblici e privati, parimenti tutelati dalla norma, trattandosi di interessi che rilevano anche nella fase liquidatoria, e quindi della funzione della norma, che deve essere garantita nella sua effettività;


che una volta determinata la base di partenza, ai fini della individuazione della somma finale, posto che la norma non prevede un tetto massimo, occorre fare riferimento alla funzione della fattispecie da essa disciplinata e della linea di tendenza proseguita dal legislatore anche con l’introduzione del nuovo comma 2 dell’art. 283 c.p.c.;


che la somma dovuta per la lite temeraria viene per l’appunto liquidata equitativamente ex art. 96 comma 3 c.p.c. in complessivi euro 200 , pari alle spese di soccombenza già determinate ai sensi dell’art. 91 comma 1 c.p.c. ( sulla correttezza di tale impostazione v. Cass. civ. sez. VI, ordinanza 30/11/2012, n. 21570 );


che la liquidazione in questi termini si rende necessaria affinchè la misura abbia un effetto deterrente e persuasivo rispetto al contenzioso instaurato temerariamente ed un contenuto afflittivo non meramente simbolico, assolvendo così alla sua funzione di danno punitivo, vale a dire di sanzione che non si limita a ristorare la parte vittoriosa dal pregiudizio subito per essere stata coinvolta in un processo ingiusto, perché per tale ultimo scopo sarebbe sufficiente la previsione di cui all’art. 96 comma 1 c.p.c.;


che in proposito, data la ratio della norma, non potrebbe in alcun modo affermarsi che viene realizzato un indebito arricchimento della parte vittoriosa, perché la giusta causa sussiste, ed è costituita proprio dalla fattispecie disciplinata dall’art. 96 comma 3 c.p.c.;


che ciò vale in considerazione della funzione del nuovo istituto quale presidio a tutela di interessi ( anche ) pubblici e quindi sia dell’incidenza della pendenza sulla capacità di risposta della amministrazione della giustizia nel suo complesso, sia dell’interesse della controparte ad evitare di essere coinvolto in un processo senza validi motivi;


che sotto questo aspetto va considerato innanzitutto il valore della controversia determinato ai sensi dell’art. 17 c.p.c., se non altro perché la pronuncia ex art. 96 comma 3 c.p.c. è accessoria a quella sulle spese, e le spese del giudizio vanno liquidate per l’appunto in base al valore della causa, mentre la durata del processo e la evidente infondatezza delle allegazioni della parte soccombente costituiscono criteri aggiuntivi di valutazione;


che ove si voglia ridiscutere solo come tale, vale a dire perchè disposta oltre la tariffa o quando vi erano ragioni di compensazione o con erronea applicazione del principio della soccombenza, la statuizione sulle spese data dal G.E. con il provvedimento di rigetto dell’istanza di sospensione non reclamato o dal Giudice del reclamo con il provvedimento di conferma di tale rigetto o di revoca della sospensione ( e, quindi, di rigetto dell’istanza di sospensione ), la discussione dovrà farsi nell’ambito del giudizio di merito a cognizione piena sulla opposizione ( cfr. sul punto in motivazione sempre Cass. civ. sez. III, 23/7/2009, n. 17266 )


P.Q.M.


Visto l’art. 624 c.p.c. sospende l’esecuzione. Visto l’art. 616 c.p.c. dichiara la propria incompetenza per valore in merito alla opposizione proposta dal debitore esecutato e rimette le parti innanzi al Giudice di Pace, assegnando termine perentorio fino al 28/2/2014 per la riassunzione della causa a cognizione piena di fronte a quest’ultimo nei confronti del creditore procedente .


Ordina alla Cancelleria dell’Ufficio Esecuzioni di trasmettere al Giudice della opposizione a cognizione piena, su richiesta della Cancelleria di quest’ultimo, una volta che la controversia sia stata iscritta a ruolo contenzioso e sia stato formato il relativo fascicolo di ufficio, il ricorso in opposizione, copia del processo verbale dell’udienza di comparizione e dei documenti allegati relativi alla causa di opposizione, in ottemperanza all’art. 186 disp. att. c.p.c.


Visto l’art. 91 comma 1 c.p.c. condanna OMISSIS al rimborso in favore dell’avv. OMISSIS quale distrattario delle spese della fase camerale sulla opposizione, che si liquidano in complessivi euro 200 per compensi, oltre IVA e CPA se documentate con fattura.


Visto l’art. 96 comma 3 c.p.c. condanna OMISSIS al pagamento in favore di Telecom Italia s.p.a. della somma di euro 200 in relazione alla fase camerale della opposizione.


Si comunichi a cura della Cancelleria alle parti costituite.


Aversa, 7/1/2014


Il G.E.

 

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