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Che cosa si dice e che cosa non si dice sul Superbonus. Il commento di Gianfranco Polillo

Altro che i mal di pancia, più volte accusati da Giancarlo Giorgetti, nell’infermeria di Via XX Settembre. Con i bonus a favore dell’edilizia, l’Italia tutta ha rischiato l’infarto. Riuscendo a scongiurare quel pericolo fatale solo con l’ultimo decreto che ne ha sostanzialmente neutralizzato il potenziale esplosivo. Ma bastano pochi conti per dimostrare quanto sia stato grande il pericolo corso. Le ultime valutazioni – il dato certo è al di là da venire – parlano di 200 miliardi di euro, le somme finora individuate (Federico Fubini sul Corriere della sera). A fronte di questa spesa vi sarebbe stato un beneficio che ha riguardato solo il 4 per cento delle abitazioni civili.

Immaginiamo allora una scenario da incubo. Ipotizzando di estendere l’intero beneficio a tutto il patrimonio edilizio nazionale. Operazione arbitraria? Non si vede perché. In quel 4 per cento di edifici miracolati c’è un po’ di tutto: civili abitazioni, case e palazzine di lusso. Finanche qualche castello. Ed allora perché escludere condomini e case del popolo? Ebbene, con una semplice proporzione, è facile calcolare l’eventuale costo complessivo per le casse dello Stato: 5.000 miliardi di euro. Due volte e mezzo il Pil nazionale. Quasi 5 volte l’intero gettito tributario. Cifre da capogiro. In grado di uccidere un elefante.

Nella stravagante legislazione nazionale è difficile trovare qualcosa di simile? Colpa della Ragioneria generale che non ha saputo prevedere? In parte, ma vedremo tra un attimo le attenuanti. Ma il difetto era a monte. In una logica giuridica, posta alla base del provvedimento, da respingere al mittente. Ed allora le responsabilità vanno ben oltre il perimetro di quel Palazzo che, a suo tempo, Giulio Tremonti aveva ipotizzato di trasformare nella sede di un grande museo. Per investire innanzitutto le responsabilità degli uffici legislativi – quello del ministero dell’Economia in modo particolare – ch’era stato costretto a comportarsi come le famose tre scimmiette: mute, sorde e cieche.

Il difetto della norma riguardava il riconoscimento di un “diritto soggettivo” che, una volta concesso, diveniva incomprimibile. Consentiva a ciascun membro della collettività nazionale di pretendere il dovuto a carico del bilancio dello Stato. In passato vi erano stati numerosi esempi di questo malgoverno della finanza pubblica. Una tecnica legislativa raffinata prevedeva, in genere, uno stanziamento predefinito. Da attivare su domanda. Una volta esauriti i fondi, il beneficio cessava, eliminando ogni automatismo. Perché questa volta non è stato attivato?

Le cronache di palazzo narrano che vi fu, da parte della Ragioneria generale, un tentativo, seppur timido, di arginare il danno. Ma Palazzo Chigi pose rapidamente fine agli indugi: la norma andava approvata nella sua forma originale. In passato conflitti del genere erano stati all’ordine del giorno. Venivano, tuttavia, risolti in sede politica, con l’intervento diretto del ministro dell’Economia pro-tempore. Ma evidentemente Roberto Gualtieri, allora uno dei principali sostenitori del governo Conte, aveva mostrato un diverso avviso.

Di fronte ad una congiuntura così complicata, da parte della Ragioneria generale dello Stato, per dirla con le parole di Guido Carli, quand’era Governatore della Banca d’Italia, sarebbe stato necessario un “atto di sedizione”. Rifiutare, cioè la “bollinatura” del provvedimento, aprendo una crisi politica-istituzionale di difficile composizione. Pericolo che lo stesso Carli allora aveva avvertito. Quando aveva assicurato che comunque la Banca d’Italia, che allora gestiva la politica monetaria, non avrebbe comunque tolto ossigeno all’economia, consentendo alla Stato di poter emettere titoli a copertura del suo crescente deficit. Ed, in effetti, così era stato.

Sul piano tecnico l’unico presidio al dilagare della spesa per bonus era stato la previsione di un lasso di tempo: entro il quale la procedura doveva essere ultimata. Una specie di foglia di fico, destinata ad essere rapidamente stravolta dall’emergenza che l’interruzione del beneficio avrebbe creato. Problema che aveva costretto il successivo governo – Mario Draghi alla presidenza e Daniele Franco all’Economia – a muoversi con i piedi di piombo, nel tentativo di limitare il danno, senza produrre ulteriori sfracelli. Di conseguenza si è andati avanti con continui aggiustamenti. Fino alla decisione ben più drastica di Giancarlo Giorgetti, nel momento in cui a distanza di solo un paio di mesi, il deficit di bilancio era cresciuto di ben 2 punti di Pil rispetto alle precedenti previsioni. Si vedano i dati della Nadef e quelli a consuntivo, certificati dall’Istat.

Nel frattempo, tuttavia, l’intero comparto edile aveva subito una completa escalation. A seguito dell’impennata della domanda di materiali da costruzione, conseguenza della necessità di cogliere l’attimo fuggente delle provvidenze di Stato, il prezzo dell’acciaio era aumentato tra il 70 ed il 113 per cento, quello della rete elettrosaldata del 71 per cento, dei todini di ferro del 72,25 per cento, del legno del 78 per cento, del cemento del 59 per cento. Trovare i ponteggi necessari per realizzare il “cappotto termico” era diventata una specie di caccia al tesoro. Tutto ciò non sarebbe successo, complice anche una particolare situazione congiunturale interna ed internazionale, se i tempi fossero stati più distesi, prevedendo in norma, le necessarie salvaguardie per il bilancio dello Stato.

Questo quindi lo stato dell’arte. Le cui evidenti contraddizioni, ancora oggi, sono negate da Giuseppe Conte ed i suoi accoliti grillini. Abbiamo contribuito – questa la giustificazione – a far crescere il Pil. Che, seppure in minima, parte ci può stare. Ma se fosse così semplice organizzare le cose, perché non provarci ancora? Basterebbe aumentare il tiraggio della spesa pubblica e tutti vivremmo felici e contenti. Almeno per qualche mese. Salvo poi portare i libri in tribunale e ridursi come la Grecia, che, per prima, aveva sperimentato questa brillante strategia.

Ovviamente non è questa la strada da percorrere. Oggi Riccardo Fraccaro, che ne è stato l’ideologo ed il “papà” di quella riforma, è uscito dai radar della politica. Secondo quanto riportato da Il Foglio (11 maggio 2023) lavora come consulente per sanare i danni prodotti dalla sua legge. E lo fa, da libero professionista, in prestigiosi uffici tributari. Avergli trovato un buon posto di lavoro è cosa buona e giusta. Perché recriminare?

 

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