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Negli ultimi anni la Svimez ha lavorato molto sull’idea di una «Zona economica speciale» (Zes) nel Mezzogiorno. A Luca Bianchi che oggi è il direttore dello storico centro di ricerca, chiediamo una valutazione del «piano strategico» su una «Zes unica» presentato ieri dal governo Meloni.

 

Luca Bianchi, direttore Svimez

Luca Bianchi, la «Zes unica» è un «contentino» per compensare l’autonomia differenziata che prevede 20 diverse politiche fiscali, ambientali, sanitarie, energetiche, infrastrutturali e penalizzerà le regioni del Sud?
Se fosse un contentino allora non sarebbe compensativa di nulla. Parliamo di cose diverse e non paragonabili. L’autonomia differenziata è oggettivamente un rischio enorme per il paese, oltre che per il Mezzogiorno. È il passaggio finale di una narrazione del paese basata sulla contrapposizione territoriale, Nord contro il Sud, zone ricche contro zone povere, che ha accompagnato il dibattito dalla metà degli anni Novanta. Se era sbagliato allora, adesso è assolutamente incompatibile con una prospettiva di crescita. La Zes, invece, è un passo in una direzione potenzialmente interessante, ma dipende da come sarà applicata.

Ma questa «Zes unica» è un’opportunità o parte già azzoppata come sostengono da giorni le opposizioni?
È un’opportunità perché ha un’idea di responsabilità nazionale sullo sviluppo. Allo stesso tempo questa idea è messa in discussione dalle politiche generali che il governo sta mettendo in campo sul Mezzogiorno. Un’impresa sta bene dove stanno bene i cittadini. Se il paese rinuncia alla riduzione delle disuguaglianze, come accadrà con l’autonomia differenziata, anche le politiche industriali saranno più difficili da realizzare e non avranno successo.

In cosa consiste la «Zes unica» e qual è la differenza con la precedente che prevedeva otto zone speciali diverse?
La Zes varata dal governo Meloni prevede una strategia unitaria che punta su otto filiere e tre tecnologiche: dall’agroindustria alla farmaceutica, dall’aerospazio all’elettronica fino all’automotive. Il progetto precedente invece non ha avuto un’attuazione efficace, partì in maniera molto lenta e soffrì di una perimetrazione eccessiva. E infine perse il suo ancoraggio alle potenzialità portuali e retroportuali.

La nuova Zes sarà gestita da un’unica struttura a Palazzo Chigi. Ciò renderà difficile la sua gestione?
Sarà utile se riuscirà a valorizzare alcuni pezzi di filiere strategiche europee che già esistono nel Mezzogiorno e possono essere rafforzate. Il problema è superare la frammentazione regionale e recuperare una dimensione nazionale. Bisogna evitare che gli interventi diventino localistici. È un po’ quello che è accaduto a Catania con la più grande fabbrica di pannelli solari d’Europa o a Termoli con una grande fabbrica di batterie. Non dovrebbero restare casi isolati. In questo senso la Zes potrà essere utile. Andrà però riempita di contenuti e di risorse.

Le risorse, appunto. Un’altra delle critiche fatte al piano nel corso degli ultimi mesi è l’esiguità degli stanziamenti, a cominciare dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), rispetto all’area enorme in cui dovrebbero essere spesi. Cosa ne pensa?
Penso che va garantita una certezza sulle risorse e bisogna avere il coraggio di fare scelte selettive costruendo strumenti di politica industriale attiva. Tuttavia il Pnrr è però schiacciato sul modello degli incentivi a domanda. Inevitabilmente le risorse arriveranno dove già ci sono e non favoriranno la nascita di nuove imprese in settori strategici. A Sud le potenzialità esistono, come dimostrano i dati sulla ripresa dopo il Covid.

Il credito di imposta è una componente della Zes. L’agenzia delle entrate ha fissato la percentuale effettiva per ciascun beneficiario al 17% e non fino al 60%. Ciò ha provocato la protesta del ministro Fitto. Penalizzerà la partecipazione delle imprese e la riuscita del piano?
Sicuramente la questione va risolta. Una vera politica industriale però non si fa solo con i crediti di imposta, né è sostenibile farla solo con il turismo e l’alimentare come invece si tende a fare credere. Una vera politica industriale dovrebbe orientare le politiche di coesione nazionali ed europee con strumenti dedicati alla crescita come i nuovi contratti di sviluppo in grado di rafforzare imprese industriali. Questo è tanto più urgente oggi che la «locomotiva del Nord» è in difficoltà per eccesso di dipendenza delle subforniture dalla Germania.

 

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