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In Italia, si sa, i piani si annunciano ma non si rispettano. È il rischio maggiore che aleggia sul PNIEC, il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima che il governo Meloni ha inviato nei giorni scorsi alla Commissione Europea. Il documento strategico che definisce la politica energetica e climatica  a medio e lungo termine di un paese, scrive il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, “conferma gli obiettivi raggiunti nella prima proposta trasmessa a giugno 2023, superando in alcuni casi anche i target comunitari, in particolare sulle energie rinnovabili”.

Con l’invio, avvenuto l’1 luglio (e una rettifica di cui parleremo a breve), l’Italia è uno dei pochi paesi europei – insieme a Danimarca, Finlandia, Paesi Bassi, Svezia – ad aver rispettato la scadenza fissata dalla Commissione. Ma lo ha fatto a discapito della trasparenza e della partecipazione, fissando un questionario consultivo della durata di un mese a marzo 2024, senza un’adeguata pubblicizzazione dell’iniziativa e senza spiegare come le informazioni sarebbero state raccolte e recepite. Accuse che alla testata Renewable Matter il ministro Fratin ha rispedito al mittente, affermando che “c’erano delle consultazioni online, gli stakeholders che volevano fare osservazioni hanno avuto un anno di tempo, essendo un tema alto e complesso non tutti hanno voluto partecipare alla bozza del PNIEC”.

In questi giorni si è discusso in maniera ampia del Piano soprattutto per via della più sostanziale delle novità rispetto alla bozza precedente, vale a dire l’inserimento del nucleare tra le fonti di energia utilizzabili per la riduzione delle emissioni di gas serra. “Secondo le ipotesi di scenario sviluppate – specifica il MASE – il nucleare da fissione, e nel lungo termine da fusione, potrebbero fornire al 2050 circa l’11% dell’energia elettrica totale richiesta – con una possibile proiezione verso il 22%”. Proiezioni certamente ottimiste per un paese come l’Italia che ha chiuso le proprie centrali nel 1987 e il cui iter per l’individuazione di un deposito nazionale per le scorie nucleari è in alto mare, ancor di più se si considera che dopo l’invio del PNIEC all’Unione Europea il ministro Gilberto Pichetto Fratin si è spinto a indicare per il mix energetico italiano “un previsione minima di 8 gigawatt di nucleare” al 2050, con il quale “si può dare un contributo rilevante, tra il 15/20% della effettiva domanda di consumo”. 

Tuttavia, il nucleare costituisce soltanto un esempio da cui partire per individuare la maggiore criticità del PNIEC italiano, cioè l’affidamento a una sorta di “pensiero magico” o di un “ottimismo della volontà” per cui l’importante è fissare degli obiettivi senza specificare in maniera chiara e dettagliata come raggiungerli. Una pratica che si era già vista con il Piano dedicato all’adattamento ai cambiamenti climatici. Anche in questo caso un piano senza modalità che in alcuni passaggi diventa un mero elenco di intenzioni. Soltanto nel comunicato stampa di lancio del PNIEC si legge che:

  • In ambito efficienza energetica, grazie alle misure previste, si registra una importante riduzione dei consumi di energia primaria e finale, ma per il raggiungimento degli obiettivi, innalzati in considerazione dello scenario di crescita del prodotto interno lordo, bisognerà continuare a lavorare.
  • Anche nei settori “non-ETS” (civile, trasporti e agricoltura) si registra un sostanziale miglioramento degli indicatori emissivi e per raggiungere i target europei ad oggi ancora troppo sfidanti sarà necessario profondere ulteriori energie.

Si potrebbe obiettare che in fondo un comunicato stampa non può fornire informazioni dettagliate. Ma siccome il diavolo è nei dettagli è proprio alla fine del comunicato che emerge un elemento degno di nota: è lo stesso Ministero a informare che il 3 luglio è stata inviata alla Commissione una nuova versione del PNIEC, trasmesso appena due giorni prima, “sulla quale sono state apportate alcune correzioni dovute a refusi redazionali”. Non proprio il miglior modo per comunicare serietà e competenza. 

Di cosa parliamo in questo articolo:

Le critiche al PNIEC arrivano da ogni parte

L’ultima versione del Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima è innanzitutto la riproposizione dei mantra ambientali della destra al governo da quasi due anni che tanto abbiamo imparato a conoscere: il pragmatismo, l’approccio tecnologicamente neutro, la sostenibilità che deve essere anche economica e sociale, il mantenimento della competitività e dell’occupazione.  

A guardare poi gli indicatori di scenario e gli obiettivi al 2030 ci si rende conto che è rimasto inalterato l’approccio della precedente bozza, basato su indicazioni con poche spiegazioni. Le differenze tra lo scenario di riferimento, cioè la previsione al netto delle azioni previste dal Piano, e lo scenario di policy, che integra i miglioramenti tecnologici e programmatici ancora non realizzati, sono in alcuni casi molto marcate.

Ad esempio, la quota di idrogeno da energie rinnovabili (il cosiddetto idrogeno verde) rispetto al totale usato dall’industria dovrebbe passare dall’attuale 0% al 54% in sei anni e mezzo. Nonostante i dubbi sulle conseguenze ambientali e sull’assenza di adeguati investimenti, pare di capire che si punti soprattutto sull’ex Ilva di Taranto. Nel PNIEC si legge infatti che:

L’infrastruttura dedicata all’idrogeno prevista per l’Hydrogen Valley in Puglia è stata inclusa dalla Commissione Europea tra i progetti IPCEI sull’idrogeno approvati a febbraio 2024 nell’ambito della wave Hy2Infra. L’infrastruttura progettata da Snam si inserisce nel quadro più ampio dello sviluppo della filiera dell’idrogeno che vede coinvolti altri primari operatori industriali attivi in Puglia. Il progetto, la cui fase operativa è attesa nel 2028, ha l’ambizione di trasportare idrogeno rinnovabile prodotto in Puglia per decarbonizzare l’industria e la mobilità della regione nel polo di Taranto attraverso 100 km di pipeline ad idrogeno puro, riutilizzando in gran parte un gasdotto esistente.

Ci si può accontentare di una breve descrizione, che apre più domande che fornire risposte? Giusto per fare un esempio la riconversione totale di un gasdotto in un idrogenodotto è un processo al di là da venire, se ne parla da anni e attualmente sul Mediterraneo sono in corso studi di fattibilità da parte degli stessi operatori del settore. Ancora una volta: puro ottimismo della volontà. 

Le pagine del PNIEC dedicate alle principali misure previste per il raggiungimento degli obiettivi sono ben nove. Ma a guardare bene ci si accorge che si tratta di un semplice elenco che mette insieme vecchie e nuove misure (queste ultime con la specifica che indica “aggiornamento” quando non ancora realizzate) senza indicare per ciascuna costi, fonti e impatti, neppure potenziali. È attorno a questa mancanza che si articolano le principali critiche mosse da ECCO, il think tank dedicato al clima, che per Il Fatto Quotidiano descrive i punti deboli del PNIEC italiano:

  1. Non ha forza legale né un impianto attuativo coerente. Le risorse dedicate e le valutazioni di impatto delle politiche non sono chiarite;
  2. Manca una visione del percorso di transizione energetica e trasformazione economica del paese, non individuando strategie per l’abbandono delle fonti fossili, come richiesto dalla COP28, né “piani, politiche e azioni nazionali per l’uscita dai combustibili fossili” come concordato in sede G7 a Venaria;
  3. L’ambizione sulle rinnovabili non è supportata dallo sviluppo di un quadro coerente di politiche, determinando rischi di prezzi dell’energia elettrica non competitivi per il sistema produttivo e per il sistema Paese;
  4. L’elettrificazione non è individuata come leva per la decarbonizzazione. Il quadro normativo resta poco coerente, mettendo sullo stesso piano soluzioni non allineate con gli obiettivi con quelle più efficienti dal punto di vista energetico ed emissivo. Questo vale, ad esempio, per il sostegno verso le pompe di calore a gas e per le motorizzazioni endotermiche nel settore dei trasporti;
  5. Manca una visione organica della trasformazione industriale nella decarbonizzazione che possa costruire le basi per competere nei nuovi mercati internazionali, inquadrando lo sviluppo industriale nell’ambito della prospettiva net zero adottato da Europa, Stati Uniti e Cina, a partire da strategie diversificate che mettano a fuoco le tecnologie disponibili e le loro potenzialità, impostando il percorso per le soluzioni non ancora mature o economiche;
  6. Non c’è un piano per garantire la sostenibilità sociale di fronte ai grandi cambiamenti tecnologici e di mercato che investiranno le persone e le imprese. Nonostante la grande crisi dei prezzi del gas del 2022-2023 e di fronte all’innovazione tecnologica che, se non gestita, rischia forti impatti socio-economici, il PNIEC non offre le tutele necessarie e opportunità alternative per accompagnare le varie fasce della società nell’uscita dall’economia fossile

Non sorprende, inoltre, la critica giunta dalle principali associazioni ambientaliste, che già nei mesi scorsi avevano contestato, tra le altre cose, la consultazione pubblica lanciata dal MASE. In un comunicato congiunto Greenpeace Italia, Kyoto Club, Legambiente,  Transport&Environment  e WWF Italia definiscono il PNIEC “irrazionale”, si scagliano contro il ritorno del nucleare e l’affidamento alle fonti fossili, definendo al contempo “deboli” gli obiettivi di sviluppo delle rinnovabili. 

Anche Confindustria, però, non appare soddisfatta del piano del governo, almeno sul fronte delle rinnovabili. La sollecitazione maggiore arriva da Elettricità Futura, la principale associazione della filiera industriale nazionale dell’energia elettrica, che rappresenta oltre il 70% del mercato elettrico italiano:

Elettricità Futura aveva proposto al MASE di rendere il PNIEC 2024 coerente con le potenzialità di decarbonizzazione dell’industria elettrica nazionale, ad esempio innalzando il target 2030 di riduzione delle emissioni di CO2eq per il settore elettrico italiano che era stato indicato nella precedente versione del Piano, il PNIEC 2023. Stupisce che, al contrario, sia stato abbassato. Avevamo anche chiesto di aumentare il target di rinnovabili nei consumi elettrici, in coerenza con il Piano elettrico 2030 che restituisce la visione degli operatori del settore che Elettricità Futura rappresenta. Al contrario, anche questo obiettivo è stato rivisto al ribasso. Non lascia ben sperare l’ulteriore complessità del quadro normativo che si è aggiunta con l’introduzione del decreto Aree Idonee. È un provvedimento che avrebbe dovuto accelerare l’installazione delle rinnovabili e che invece, nella realtà, sta complicando la possibilità di fare gli impianti e aggiungendo extra costi che avranno un effetto domino, facendo aumentare il costo dell’energia elettrica prodotta. Peraltro, non riscontriamo unità tra il target di nuova potenza rinnovabile da installare al 2030 indicato nel DM Aree Idonee, ovvero + 80 GW, e il target indicato nel PNIEC, +73 GW.

Analogo esempio, anzi ancora più estremo, si può fare per l’introduzione dei target già citati relativi al nucleare. Qui però non si vuole discutere dell’opportunità in sé dell’adozione di questa energia ma della mancata definizione di una tabella di marcia. Nell’attuale versione del PNIEC le occorrenze della parola “nucleare” sono ben 88, quasi il triplo rispetto alla versione del 2023, dove si fermavano a 30.

Però resta la sensazione che ci sia ancora poco rispetto agli annunci, tanto che a più riprese si parla di “eventuale produzione”, nell’ottica di un affiancamento del nucleare alle rinnovabili che potenzialmente sarebbe in grado di diminuire il ricorso al gas e alle bioenergie. L’ipotesi avanzata dalla Piattaforma Nazionale per un Nucleare Sostenibile, istituita dal MASE a novembre 2023, ha individuato uno scenario a lungo termine (dal 2035 al 2050) contenente “una quota di generazione da fonte nucleare, quale possibile ulteriore contributo alla decarbonizzazione”. Affidandosi, si legge nel PNIEC, a “tecnologie dei piccoli reattori modulari a fissione (con installazione a partire dal 2035)” e ai “reattori a fusione (con installazione a partire dalla seconda metà del decennio 2040-50)”. Uno scenario che viene respinto dall’associazione Energia per l’Italia:

Potrà realisticamente il nostro paese da solo avviare nei prossimi 25 anni una quantità di potenza nucleare che è cinque volte tutta quella installata nell’intera Unione Europea negli ultimi 25 anni? E per di più può farlo utilizzando una tecnologia come quella degli SMR (small modular reactors, cioè i piccoli reattori modulari a fissione citati dal PNIEC, nda) che è ancora embrionale? Ricordiamo che il termine “modular” implica una produzione in serie, ma al momento siamo ancora a livello di prototipi: non è possibile prevedere se da questi prototipi si possa effettivamente giungere a una produzione su vasta scala. Inoltre, il nostro paese ha oramai perso buona parte delle competenze tecnico-ingegneristiche per costruire nuovi reattori nucleari. E purtroppo, da decenni, non riesce nemmeno a individuare un sito ove costruire il deposito nazionale per i rifiuti radioattivi. Quanto altro tempo passerà solo per indicare un numero elevato di siti per le nuove centrali nucleari?

In un lungo post dedicato ai “creativi” numeri del PNIEC sulle rinnovabili, anche L’avvocato dell’Atomo, la più nota pagina divulgativa e di promozione dell’energia nucleare, ne contesta il disinvolto ingresso negli obiettivi del governo:

Per i piani post-2030, il PNIEC riconosce un ruolo al nucleare, senza specificare di che tecnologia si tratterebbe (ma si vaneggia anche di fusione verso il 2050, la stessa settimana in cui ITER annuncia un ritardo di 4 anni sulla tabella di marcia), e soprattutto senza specificare nemmeno l’ammontare: si parla di 8 GW che coprirebbero il 10% della domanda al 2050 (8 GW produrrebbero 64 TWh, cioè poco più di quella che oggi è l’elettricità importata annualmente dall’Italia), con uno scenario ipotetico da 16 GW che coprirebbero il 22% della domanda. Posto che un piano serio di decarbonizzazione richiederebbe almeno 30-35 GW nucleari (35-45% della domanda), il PNIEC sostanzialmente non specifica i criteri sulla base dei quali uno o l’altro scenario verrebbero adottati: è tutto rimandato al futuro. Forse all’anno prossimo, in cui dovrebbe uscire il documento “Strategia a lungo termine per la riduzione di emissioni di gas a effetto serra”, forse al prossimo governo, forse al prossimo 31 febbraio: non lo sappiamo.

E così, paradosso dei paradossi, senza entrare nel merito il PNIEC italiano è riuscito ad attrarre gli opposti. 

Altro che povertà energetica: ancora ENI, sempre ENI

Va ricordato che la versione attuale del PNIEC, che passa da 424 a 491 pagine, avrebbe dovuto rispondere alle circostanziate osservazioni mosse a dicembre 2023 dalla Commissione Europea. Una delle obiezioni principali riguardava la mancanza di un’adeguata attenzione alla povertà energetica. Addirittura in Italia manca ancora una definizione ufficiale, nonostante la raccomandazione UE 2023/2407 solleciti gli Stati membri ad “adottare misure rapide e recepire e attuare nel diritto nazionale la definizione di povertà energetica”. Per l’Unione Europea, in ogni caso, “la povertà energetica è un fenomeno multidimensionale” che è determinata principalmente da tre cause profonde: una forte spesa per l’energia rispetto al bilancio familiare, bassi livelli di reddito e scarsa efficienza energetica degli edifici e degli apparecchi. 

Il PNIEC del 2023, a detta della Commissione, non aveva definito la situazione delle famiglie interessate e non aveva neppure indicato un obiettivo specifico di riduzione che fosse misurabile. In più si chiedevano anche dettagli sul ruolo e sui compiti dell’Osservatorio nazionale della povertà energetica, di cui sul sito del MASE non si hanno tracce se non l’istituzione dei componenti con due decreti risalenti ad agosto e settembre 2022.

Su quest’ultimo punto, nella nuova versione del PNIEC, il MASE si limita ad elencare le funzioni e a indicare genericamente che l’Osservatorio “presenterà proposte al Governo per il recepimento e all’attuazione (così nel testo, nda) nel quadro nazionale della definizione di povertà energetica”. Una definizione però, che a distanza di oltre sei mesi dalla richiesta della Commissione, continua a mancare e che il testo promette di “formalizzare nel decreto nazionale di recepimento della nuova direttiva sull’Efficienza Energetica (UE) 2023/1791 del 13 settembre 2023”, senza indicarne i tempi.

Sono altre, invece, le novità che si registrano tra una versione e l’altra del Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima. Come ricorda il portale specializzato Staffetta Quotidiana, l’Italia ha ridotto significativamente la sua dipendenza dal gas russo, ma non secondo le previsioni del PNIEC:

La diminuzione della domanda interna ha avuto un ruolo maggiore del previsto, superando le stime di riduzione dei consumi. Le importazioni dall’Africa sono state inferiori alle attese, mentre quelle da Norvegia e Stati Uniti sono aumentate notevolmente. Le discrepanze tra le previsioni del PNIEC e i flussi effettivi evidenziano una sovrastima delle importazioni dall’Algeria e dal Qatar e una sottostima delle forniture via tubo e nave da Norvegia e USA.

Nonostante ciò si conferma ancora una volta l’idea di voler fare dell’Italia un hub del gas. Ancora dall’ultima versione del PNIEC:

L’attuale ricerca di diversificazione delle fonti di approvvigionamento del gas può portare l’Italia a porsi come un hub nel Mediterraneo, divenendo un punto di immissione di gas e di suo convogliamento verso gli altri paesi europei (Malta, Slovenia, Slovacchia al momento), anche attraverso il rafforzamento di alcune infrastrutture (verso Austria) transfrontaliere e interne (Linea Adriatica). 

Sulle importazioni di gas dall’Africa e dal Medio Oriente dopo la guerra in Ucraina, come avevamo fatto notare anche a Valigia Blu, i governi Draghi e Meloni si sono affidati a ENI. Ed è proprio la più grande azienda energetica italiana l’elemento di continuità tra il vecchio e il nuovo PNIEC. Anzi, in quest’ultima versione il suo ruolo viene ulteriormente ampliato.

Pur non citandola, infatti, è a ENI che il governo pensa quando parla di fusione nucleare: non solo perché la multinazionale è tra le poche in Italia che ha la disponibilità economica per poter affrontare la mole di investimenti che questa tecnologia richiede ma anche, e soprattutto, perché da qualche tempo ENI la inserisce come obiettivo nel proprio mix energetico dopo il 2050. Che, guarda caso, è lo stesso orizzonte temporale indicato dal PNIEC. Di più: ad aprile di quest’anno, nella fase di stesura del nuovo Piano energetico e climatico, in un’audizione al Senato presso le commissioni Ambiente e Lavori pubblici, rappresentanti di ENI ed Edison hanno illustrato le potenzialità della fusione nucleare per la produzione energetica. Addirittura ENI ha indicato di prevedere di realizzare la prima centrale nucleare a fusione industriale nei primi anni Trenta (tesi sconfessata in maniera accesa ancora una volta da L’Avvocato dell’Atomo).

Un riferimento diretto alla società energetica italiana è invece relativo alla cattura e allo stoccaggio dell’anidride carbonica, il cui impianto principale è in fase di realizzazione a Ravenna. Tra una bozza e l’altra del Piano presso il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica è nato il comitato CCS che esaminerà le istanze in materia di cattura e stoccaggio geologico di CO2. Si tratta di una tecnologia su cui il PNIEC punta molto:

Per raggiungere l’obiettivo di contenimento delle emissioni, in particolare del settore industriale, sarà necessario anche il ricorso alla cattura, trasporto e stoccaggio/utilizzo della CO2 (CCUS). A tal fine verranno stabiliti obiettivi specifici per la cattura e lo stoccaggio della CO2 sulla base delle caratteristiche geologiche dei relativi siti di stoccaggio che verranno resi operativamente disponibili entro il 2030 e introdotto un quadro normativo e regolatorio volto a creare delle condizioni favorevoli allo sviluppo delle progettualità inerenti la cattura, il trasporto, lo stoccaggio e l’utilizzo della CO2.

E tra una bozza e l’altra, come ricorda ancora il PNIEC, la stessa Unione Europea ha impresso un’accelerazione a due progetti che riguardano l’Italia di cui uno, quello relativo alla raccolta dell’anidride carbonica, è proprio quello a cui sta lavorando ENI, in tandem con Snam:

I progetti PCI (progetti di interesse comunitario), inclusi nella lista entrata in vigore a inizio 2024, riguardanti la regione del Mediterraneo (progetto “Callisto Mediterranean CO2 Network” e “Prinos CO2 storage”), sono specificamente progettati in un contesto transfrontaliero e coinvolgono l’Italia a diversi livelli. Il progetto CALLISTO Mediterranean CO2 Network rientra nell’ambito più ampio del progetto italiano Ravenna CCS, che mira a fornire un’infrastruttura ad accesso aperto su vasta scala, offrendo a industrie e centrali elettriche situate sia in Italia che nel Sud Europa con emissioni di CO2 difficili da abbattere una soluzione di decarbonizzazione tempestiva ed economica su base trasparente e non discriminatoria. Il progetto Callisto coinvolge l’Italia lungo l’intera filiera CCS, fornendo un impegno significativo per lo sviluppo delle infrastrutture per la cattura, il trasporto e lo stoccaggio della CO2 in Italia. In questo progetto, l’Italia è il Paese destinatario delle emissioni di CO2 di altri Paesi, diventando il perno della filiera attraverso il suo sito di stoccaggio geologico nel Mare Adriatico. D’altra parte, nel progetto di stoccaggio di CO2 di Prinos l’Italia è parte del processo come Paese emettitore, poiché lo stoccaggio di CO2 è previsto presso il sito di stoccaggio di Prinos (Grecia).

Infine nel nuovo PNIEC si conferma e anzi si amplia ulteriormente il ruolo dei biocarburanti, di cui il produttore principale in Italia è ancora una volta ENI. Per i biocarburanti avanzati, cioè quelli che sono ottenuti attraverso tecniche di produzione che non comportano sottrazione di terreno agricolo alla produzione alimentare o cambi di destinazione agricola:

Si prevede di superare l’obiettivo specifico previsto dalla direttiva RED III, pari al 5,5% al 2030 (target cumulativo con i carburanti rinnovabili di origine non biologica, di cui 1% obbligatorio da questi ultimi), attraverso un aggiornamento dei meccanismi di incentivazione previsti per il biometano avanzato e gli altri biocarburanti avanzati (con D.M. 2 marzo 2018, DM 15 settembre 2022, DM 16 marzo 2023 e DM 20 ottobre 2023) fino al raggiungimento di un obiettivo intorno al 11,6%.

Si tratta di un dato significativo: non solo perché è uno dei pochi campi ambientali in cui l’Italia prevede addirittura di raddoppiare i target europei ma anche perché costituisce un ulteriore aumento rispetto alla quota del 10% fissata nella precedente versione del PNIEC. E ciò avviene a ridosso di un consistente finanziamento del Fondo Italiano per il Clima ai progetti di ENI per la filiera dei biocarburanti in Kenya. Quando si dice la programmazione.

Immagine in anteprima: frame video Alis Italia via YouTube

 

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