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Sommario (seconda parte): 9. La notifica dell’ordine/ingiunzione e il ruolo del difensore. – 10. Il termine di pagamento e la richiesta di rateizzazione. – 11. L’accertamento del pagamento o del mancato pagamento e la trasmissione degli atti al magistrato di sorveglianza per la conversione. – 12. L’esecuzione di pene concorrenti. – 13. Il condannato irreperibile. – 14. l’irreperibilità e la estinzione della pena pecuniaria per decorso del tempo. – 15. Entrata in vigore della riforma. – 16.L’esecuzione europea.

9. La notifica dell’ordine/ingiunzione e il ruolo del difensore

L’ordine/ingiunzione di cui all’art. 660 c.p.p. ai sensi del secondo comma va notificato al condannato e al suo difensore, espressamente nominato per la fase di esecuzione ovvero, in mancanza, il difensore della fase di cognizione.

In merito alla notifica al condannato, va osservato che  – anche nel codice novellato  – dalla separazione tra procedimento esecutivo e di cognizione[41] discende che l’elezione di domicilio (probabilmente anche digitale[42])  fatta in sede di cognizione non possa estendere i suoi effetti in quella successiva, anche qualora il domicilio eletto sia  lo studio del difensore destinatario della notifica[43]. Ciò è confermato dal fatto che,  rispetto al sistema previgente, la riforma ha ridotto l’efficacia della elezione di domicilio (art. 164 c.p.p.)[44] e, richiedendo una nuova elezione di domicilio anche  per l’impugnazione a pena di inammissibilità[45], ha contratto  l’ambito di efficacia della elezione iniziale, riducendola dalla intera fase di cognizione alla fase di merito di primo grado.

Qualora non abbia eletto domicilio per la fase esecutiva (come peraltro solitamente accade) ed in assenza di specifiche indicazioni, è da ritenere che la notifica dell’ordine/ingiunzione debba essere fatta ai sensi degli artt. 157 e seguenti del codice di rito, come  modificato dal d.lgs. 150/22, con possibile conclusione nel decreto di irreperibilità e conseguente notifica al difensore ai sensi dell’art. 159 c.p.p., norma non modificata in modo significativo. L’unica disposizione specifica (art. 660 comma 5 c.p.p.) è mutuata dal comma 8 bis dell’art. 656 c.p.p., inserito dalla legge 19 gennaio 2001 n. 4:

«Quando è provato o appare probabile che il condannato non abbia avuto effettiva conoscenza dell’avviso di cui al comma 5, il pubblico ministero può assumere, anche presso il difensore, le opportune informazioni, all’esito delle quali può disporre la rinnovazione della notifica

Quello del comma quinto è un  un potere/dovere del pubblico ministero che consente ed impone all’ufficio di superare nel caso concreto, sulla base di elementi fattuali emersi o informazioni successivamente assunte, le presunzioni formali di validità della normativa sulla notifica. Il suo ambito pratico di applicazione – che contempla la possibilità di assunzione di informazioni da parte del p.m.   presso il difensore –  in realtà si concentra soprattutto sulla possibilità di rinnovo della notifica apparentemente valida  e dunque di remissione in termini per pagare, presentare istanza rateale od altro. La norma istituisce una sorta di “onere probatorio” a carico del condannato di dimostrare la “impossibilità”, temperato dalla valutazione in bonam partem del p.m. delle giustificazioni addotte, evidenziata dalla frase “o appare probabile”.

In sede esecutiva, stante l’indicazione dell’art. 655 c.p.p. comma quinto[46],  il mandato difensivo reso nella fase di cognizione non è più efficace (Cass. Sez. III 28.9.2016 n. 11934, RV 270350). La giurisprudenza (Cass. 1, sent. 8.7.2020 n. 23735 RV 279443) ha escluso peraltro  che ove la nomina per la fase di cognizione contenga “genericamente” un riferimento alla fase esecutiva non possa valere per tale fase (fatto salvo l’art. 656 comma 5 c.p.p.).

Il rischio che la soluzione del legislatore di coinvolgere in esecuzione un difensore nominato di ufficio non possa garantire appieno la difesa tecnica del condannato, ha quindi indotto il legislatore  (analogamente a quanto disposto dalla novella l. 165 del 27 maggio  1998, nella modifica dell’art. 656 comma 5 c.p.p.), ad indicare in via derogatoria nel difensore (o nei difensori) della fase di cognizione, in mancanza di nomina per l’esecuzione, il destinatario della notifica dell’ordine/ingiunzione. Questa forma di “perpetuazione” del mandato difensivo, diversa sia dalla figura del difensore di fiducia che da quella di ufficio[47] è ideata in modo da garantire maggiormente la conoscenza del provvedimento da parte del condannato da parte del professionista che ha con lui maggiori possibilità di contatto reale, visti i brevi termini per proporre istanza di pagamento rateale ai sensi dell’art. 660 comma 3 c.p.p. (venti giorni).

L’obbligo di notificare l’ordine di esecuzione anche al difensore, a pena di nullità ex art. 655 c.p.p.,  non ha solo uno scopo “informativo”, di garantire la chiarezza e comprensibilità dell’ordine, ma anche e soprattutto di promuovere la funzione difensiva di controllo in  contraddittorio della correttezza della azione esecutiva del p.m. ed eventualmente riportarla su un piano di legalità, attraverso il ricorso al giudice dell’esecuzione[48].  I provvedimenti del p.m. in fase esecutiva, in virtù della loro natura non giurisdizionale, sono peraltro revocabili e liberamente modificabili dall’ufficio che li ha emessi, anche a richiesta di parte. Il difensore può pertanto anche rivolgersi direttamente all’organo che ha emesso il provvedimento per ottenerne la correzione o revoca in tempi rapidi, senza attendere la fissazione dell’udienza per incidente di esecuzione. L’eventuale provvedimento di rigetto, anch’esso da notificare (perché altrimenti nullo ex art. 178 c.p.p.) può essere oggetto di incidente di esecuzione, anche promosso dallo stesso p.m. interessandone contestualmente il giudice.

Ciò può accadere ad esempio per errori nell’ordine/ingiunzione nel riportare il comando del giudice, avvenuto pagamento entro i termini non registrato correttamente dal sistema, oppure errori di persona, difetti nelle notifiche, pluralità di sentenze per lo stesso fatto (669 c.p.p.), in caso di cumulo, sui criteri di formazione del cumulo, questioni sul titolo esecutivo come l’avvenuta depenalizzazione del reato ovvero mancata traduzione dell’ordine nella lingua del condannato alloglotta.

A quest’ultimo proposito, sin dal 1995, a seguito della sentenza n.10 del 19 gennaio 1993 della Corte costituzionale, la Cassazione ha rappresentato la necessità di tradurre in lingua nota al condannato che non comprendesse la lingua italiana l’ordine di esecuzione per la carcerazione, anche se tale atto non è previsto nell’elenco di cui all’art. 143, comma 2  c.p.p. (non modificato dalla riforma Cartabia)[49]. L’obbligo di tradurre l’ordine/ingiunzione di pagamento emerge peraltro   da una serie di pronunce della Suprema corte sulla necessità di disporre la traduzione dell’ordine di esecuzione[50]. Sicuramente è opportuno, per non rischiare di incorrere in nullità dell’ordine, tradurre gli avvisi quando dagli atti emerga che il condannato non conosce la lingua italiana, in modo da renderlo edotto dei termini e delle modalità del pagamento e delle conseguenze dell’inadempimento. 

10. Il termine di pagamento e la richiesta di rateizzazione

Il terzo comma dell’art. 660 c.p.p. fissa il contenuto dell’intimazione di pagamento, che deve avvenire entro il termine di novanta giorni dalla notifica. L’intimazione di pagamento è accompagnata dall’avviso che, in mancanza di pagamento, la pena pecuniaria sarà convertita nella semilibertà sostitutiva (cfr. art. 102 l. n. 689/1981) o, in caso di accertata insolvibilità, nel lavoro di pubblica utilità sostitutivo o nella detenzione domiciliare sostitutiva (cfr. art. 103 l. n. 689/1981).

Dalla Relazione illustrativa si evince che il legislatore ha ritenuto  congruo prevedere un termine di novanta giorni dalla notifica “per consentire al condannato di recuperare la disponibilità della somma di denaro necessaria per il pagamento della pena”.

L’ordine di esecuzione  contiene inoltre l’avviso al condannato che, quando non è già stato disposto nella sentenza o nel decreto di condanna, entro venti giorni (da intendersi dalla notifica), può depositare presso la segreteria del pubblico ministero istanza di pagamento rateale della pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 133 ter del codice penale. Si tratta di una previsione ricalcata sulla istanza di misure alternative, e si ritiene che – come tale istanza –  anche questa possa essere inviata a mezzo posta (e naturalmente PEC, come da nuove disposizioni sul deposito degli atti)[51]: la scelta di depositare presso il p.m.  anziché presso l’ufficio di sorveglianza (cui è destinata) l’istanza di rateazione nasce dall’esigenza di interrompere il termine per il pagamento integrale e dunque di impedire che venga immediatamente chiesta la conversione. L’istanza, come quella di misure alternative, se presentata direttamente al magistrato di sorveglianza non è da considerare tuttavia inammissibile[52].

L’istanza, che ha per presupposto – giusto il richiamo all’art. 133 ter cp- le disagiate condizioni economiche del condannato, anche in relazione alla entità della pena inflitta, deve essere documentata, a pena di inammissibilità (art. 233 t.u. spese di giustizia). Il termine di venti giorni è da ritenere decorra  dall’ultima notificazione tra quelle previste, tuttavia una istanza di rateizzazione inammissibile presentata dal difensore potrebbe impedire una  nuova presentazione nei termini decorrenti dalla notifica al condannato.

Se è presentata istanza di pagamento rateale, il  pubblico ministero trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza competente, che procede ai sensi dell’articolo 667, comma 4, senza udienza partecipata.

È da ritenere che  magistrato di sorveglianza, una volta accolta l’istanza, debba trasmettere il decreto di  rateizzazione al p.m.  per gli accertamenti sul pagamento delle rate. E’ da chiedersi se il legislatore implicitamente abbia previsto che tale decreto contenga, analogamente all’ordine di esecuzione di pena rateizzata dal giudice della cognizione, l’indicazione del numero delle rate, dell’importo e delle scadenze di ciascuna per il pagamento ovvero (ma in tal caso – come osservato dalla Relazione del Massimario –  lo avrebbe espressamente previsto) la rateizzazione sia da comunicare al p.m.  per emissione di nuovo ordine.

Quando invece la pena pecuniaria è stata già rateizzata dal giudice dell’esecuzione, al comma 4  si prevede che “con l’ordine di esecuzione il pubblico ministero ingiunge al condannato di pagare la prima rata entro trenta giorni dalla notifica del provvedimento, avvertendolo che in caso di mancato tempestivo pagamento della prima rata è prevista l’automatica decadenza dal beneficio e il pagamento della restante parte della pena in un’unica soluzione, da effettuarsi, a pena di conversione ai sensi del terzo comma precedente, entro i sessanta giorni successivi”. Per il pagamento della prima rata, come emerge dalla relazione, il legislatore  ha ritenuto congruo prevedere un termine più breve rispetto a quello ordinario di novanta giorni; si osserva che il mancato pagamento della prima rata non determina l’immediata conversione della pena pecuniaria, potendo il condannato – decaduto dal beneficio del pagamento rateale – pagare in un’unica soluzione la multa o l’ammenda entro i successivi sessanta giorni e, pertanto, entro l’ordinario termine di novanta giorni. 

11. L’accertamento del pagamento o del mancato pagamento e la trasmissione degli atti al magistrato di sorveglianza per la conversione

Il sesto comma dell’art. 660 c.p.p. disciplina l’ipotesi in cui, entro il termine stabilito, la multa o l’ammenda vengano pagate. Organo competente a verificare l’avvenuto pagamento e a dichiarare l’avvenuta esecuzione della pena è il pubblico ministero: “se, entro il termine indicato nell’ordine di esecuzione, il pubblico ministero accerta l’avvenuto pagamento della multa o dell’ammenda, da parte del condannato, dichiara l’avvenuta esecuzione della pena. In caso di pagamento rateale, il pubblico ministero accerta l’avvenuto pagamento delle rate e, dopo l’ultima, dichiara l’avvenuta esecuzione della pena”.

Come lo accerta? Anche in questo caso è necessario uno sforzo organizzativo e un investimento informatico, che consenta di mettere in diretta comunicazione l’ufficio “cassa” della Agenzia delle entrate con gli uffici di procura. Uno dei motivi per i quali il previgente sistema di esecuzione delle pene pecuniarie non ha dato i suoi frutti, è il mancato coordinamento e i difetti di comunicazione tra l’ufficio del p.m. , l’ufficio di cancelleria  (unico che aveva accesso al registro SIAMM su cui interviene l’Agenzia della riscossione). Non vi era una banca dati aperta che consentisse al p.m.  di verificare se il pagamento fosse o meno avvenuto, né a che punto fosse la procedura di riscossione. Ora, l’armonizzazione delle banche dati o altre agevolazioni informatiche  in questo senso sono adempimenti  di assoluta necessità, né è ragionevole investire la segreteria del  p.m.  di controlli telefonici, ovvero prevedere che possa attendere o dover sollecitare  la comunicazione formale  del pagamento, posto che il codice impone (anche se la norma ha lo scopo di scandire i tempi e non ha sanzioni processuali) che “entro il termine indicato nell’ordine di esecuzione”, il p.m.  accerti l’avvenuto pagamento.

Il settimo comma, disciplina l’ipotesi in cui l’ordine/ingiunzione non sia andato a buon fine. “Quando accerta il mancato pagamento della pena pecuniaria, ovvero di una rata della stessa, entro il termine indicato nell’ordine di esecuzione, il pubblico ministero trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza competente per la conversione ai sensi degli articoli 102 e 103 della legge 24 novembre 1981, n. 689 ovvero, quando si tratta di pena pecuniaria sostitutiva, ai sensi dell’articolo 71 della medesima legge”. In ogni caso, se il pagamento della pena pecuniaria è stato disposto in rate mensili, è convertita la parte non ancora pagata. Il magistrato competente è quello relativo alla residenza del condannato o al suo  luogo di detenzione.

Infine, l’undicesimo comma disciplina il caso in cui vi sia condanna ai sensi dell’art. 534 c.p.p. del “civilmente obbligato per la pena pecuniaria”, a pagare se il condannato risultasse insolvibile. In caso di rilevata insolvibilità del condannato, il magistrato di sorveglianza ne dà comunicazione al p.m. , il quale “ordina” al civilmente obbligato di provvedere al pagamento della pena entro un termine e poi – laddove  il pagamento entro il termine non avvenga – di nuovo lo comunica al magistrato di sorveglianza per la conversione. Anche per questo passaggio, come si è già osservato,  vi è la complicazione rappresentata dal possibile cambiamento  dell’ufficio del p.m.

Nella verifica dell’inadempimento, il p.m., a quanto parrebbe, dovrebbe (data la novità, il condizionale è d’obbligo) essere esentato da  ogni valutazione sui motivi, in particolare sulla reale insolvibilità, controllo rimesso invece al  magistrato di sorveglianza. Ciò si desume dalla lettera della norma (“quando accerta il mancato pagamento”) nonché dall’intero sistema, che tende a limitare e ridurre i controlli sulla situazione patrimoniale del condannato, affidandoli al magistrato di sorveglianza (“previo accertamento della condizione di insolvenza ovvero di insolvibilità del condannato”) che peraltro ha a disposizione i medesimi mezzi della procura, potendo avvalersi della polizia giudiziaria (art. 660 comma 9 c.p.p.). Non così conclude la Relazione del Massimario[53], richiamandosi alle sentenze Nikolic e Duri: “Al pubblico ministero spetta l’accertamento della impossibilità di esazione, ossia di una obiettiva situazione, attribuibile a qualsiasi ragione, transitoria o definitiva, che costituisce impedimento al regolare recupero della pena pecuniaria.”, tuttavia le due sentenze citate – di cui si è detto – trovano la loro collocazione in un sistema normativo completamente diverso, e comunque riguardano il tema specifico della irreperibilità, in cui è evidente che prima di trasmettere gli atti ogni ricerca del condannato debba essere fatta con cura[54].

La medesima procedura è prevista per la esecuzione delle pene pecuniarie comminate dal giudice di pace: la materia è oggetto di disciplina specifica (d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274) modificata dal d.lgs. 150/22 nel senso di prevedere specificamente, all’art. 72, comma 1, lett. b) del d. lgs. n. 150 del 2022, l’ estensione della disciplina in materia di esecuzione delle pene pecuniarie prevista dal nuovo art. 660 c.p.p. anche ai procedimenti di competenza del giudice di pace.

12. L’esecuzione di pene concorrenti

Quanto osservato per l’esecuzione singola, deve riportarsi anche per l’esecuzione concorsuale, che si ha in presenza di più titoli da eseguire. Il codice di rito, all’art. 663, impone al requirente, qualora siano passate in giudicato più sentenze di condanna in capo al medesimo soggetto, di determinare — mediante decreto — la pena finale da eseguirsi e rinvia, quanto alle regole per il computo, agli artt. 71 ss. c.p.

Il decreto di esecuzione di pene concorrenti, come ogni atto del pubblico ministero, dev’essere notificato al difensore a pena di nullità, ed in caso di una pluralità di pene pecuniarie (anche aggiunte a pena detentiva) nella parte finale dovrebbe riportare per intero il contenuto della ordinanza/ ingiunzione.

Il cumulo non è solo un provvedimento tecnicamente complesso, ma anche “composto”, poiché comprende in sé, oltre alla determinazione della pena finale e all’elenco delle sentenze suscettibili di esecuzione — che ne costituiscono elementi essenziali — anche richieste al giudice dell’esecuzione di revoca dei benefici correlate al complesso delle condanne irrevocabili subite dal soggetto. Le domande rivolte al giudice dell’esecuzione possono essere anche contenute in atti diversi dal decreto di esecuzione di pene concorrenti: tuttavia, poiché il presupposto in fatto della revoca dei benefici richiede il passaggio in giudicato di sentenze di condanna, solitamente nella richiesta è contenuto il richiamo al cumulo o l’elencazione delle condanne che ne fanno parte. 

Il magistrato del pubblico ministero è chiamato a redigere il decreto di cumulo ogni qualvolta lo “sviluppo esecutivo” lo richieda, vale a dire — come testualmente recitava l’abrogato art. 582 comma 1 c.p.p. del 1930 — ogni qualvolta l’operazione si renda necessaria per l’avvenuta irrevocabilità di altre sentenze nei confronti della stessa persona. Il motivo è duplice: da un lato, l’interesse del condannato a conoscere con esattezza e completezza la propria situazione esecutiva e, dall’altro, l’interesse dell’ordinamento all’instaurazione di un ordinato rapporto esecutivo unitario. Ciò vale naturalmente  anche per il passaggio in giudicato di sentenze che irrogano la sola pena pecuniaria.

In questi casi, il succedersi dei provvedimenti di cumulo può determinare il mutamento della “competenza” del pubblico ministero: l’art. 663 c.p.p., indica infatti come legittimato all’emissione del cumulo, l’ufficio di procura presso il giudice che ha emesso la sentenza divenuta definitiva per ultima, cosicché può determinarsi per ogni nuovo titolo una diversa competenza territoriale. La giurisprudenza ha precisato che la regola della competenza è valida anche per le sentenze ineseguibili, come quelle già espiate in custodia cautelare o interamente condonate, quindi è da ritenere anche per le sentenze con pena pecuniaria pagata.

Richiedono parimenti l’emissione di nuovo cumulo — pur non incidendo sulla competenza — le ordinanze del giudice dell’esecuzione che riconoscono la continuazione in sede esecutiva ex art. 671 c.p.p. o che si pronunciano sulla revoca di benefici, o revocano sentenze per abolizione del reato (art. 673 c.p.p.) o che riconoscono la non eseguibilità per remissione in termini (art. 175 c.p.p.) o qualsiasi altro motivo che determini il venir meno del titolo esecutivo (art. 670 c.p.p.). Anche alcuni provvedimenti del tribunale di sorveglianza che incidono sulla conversione della libertà controllata o della pena pecuniaria di cui agli artt. 47 e seguenti della legge sull’ordinamento penitenziario.

Alla emissione del primo decreto di cumulo nei confronti di un condannato, e comunque ogni qualvolta ne divenga necessaria nuova emissione per i motivi di cui si è detto, la segreteria del pubblico ministero è tenuta a svolgere tutte le attività istruttorie già descritte per il titolo esecutivo singolo. Naturalmente l’attività si presenta più complessa, poiché la corretta redazione del cumulo presuppone una precisa conoscenza anche delle situazioni esecutive precedenti: si devono pertanto raccogliere gli stati di esecuzione, i precedenti cumuli, e se possibile le sentenze che ne fanno parte.

La giurisprudenza ha fornito specifiche indicazioni in merito alla individuazione delle “pene concorrenti” da inserire nel cumulo: lo sono certamente tutte le pene non espiate in tutto o in parte al momento del passaggio in giudicato dell’ultima sentenza di condanna, anche a pena pecuniaria o di assoluzione con applicazione di misura di sicurezza[55].

Gli articoli 73, 75 e l’art. 78 del codice penale definiscono i principi per il calcolo della pena principale  in caso di condanna unica per più reati e in virtù del richiamo dell’art. 80 c.p. e dell’art. 663 c.p.p. sono utilizzate per il calcolo della pena per più condanne. Questi precetti definiscono il sistema così detto del “cumulo materiale”, perché si risolvono in una somma aritmetica delle pene concorrenti del medesimo genere (cioè per  multa ed ammenda secondo la “moneta corrente”). All’art. 75 c.p. si precisa che eventuali  pagamenti di pene pecuniarie in un cumulo  vanno detratti prima dalle condanne alla multa e poi da quelle alla ammenda.

È solo il caso di accennare come il principio di unicità della pena in esito al cumulo non esista in tutti gli ordinamenti europei, ma sia un istituto tipico del nostro ordinamento. Nella maggior parte degli altri ordinamenti le pene restano separate così come le condanne e si eseguono l’una dietro l’altra.

Sin dal 1930, il legislatore aveva inteso mitigare la risposta sanzionatoria in caso di pene concorrenti, stabilendo, all’art. 78 c.p., alcune regole per il temperamento delle pene principali. Il limite fissato dall’art. 78 c.p. per le pene principali è del quintuplo della più grave tra le pene concorrenti, e comunque di 15.493,00 euro per la multa (64.557 euro se la multa è applicata con i criteri di cui all’art. 133-bis c.p., commisurata alle condizioni economiche del reo), 3.098 euro per l’ammenda e 12.911 euro, nel caso dell’art. 133-bis c.p.  

Le limitazioni di cui all’art. 78 c.p., almeno per le pene pecuniarie, trovino applicazione esclusivamente per i reati previsti nel codice penale e nelle leggi entrate in vigore prima della l. n. 689 del 1981, il cui art. 101 ha novellato la disposizione. La normativa complementare successiva contempla limiti edittali superiori a quelli dell’art. 78 c.p. per le pene pecuniarie, ma in virtù della prevalenza della legge speciale, si applica la disciplina derogatoria, giusto disposto dell’art. 15 c.p.[56]  Parimenti, il criterio moderatore non vale per le pene pecuniarie proporzionali, ad esempio quelle finanziarie, come espressamente previsto dall’art. 27 c.p.

13. Il condannato irreperibile

Che cosa accade  in caso di irreperibilità del destinatario dell’ordine/ingiunzione? [57]

Come è noto, per l’ordine di esecuzione con sospensione per pena detentiva, la declaratoria di irreperibilità conduce, scaduti i termini per la notifica, alla emissione di un ordine di esecuzione diffuso sulle piattaforme SDI, cosicché appena trovato il condannato è condotto in detenzione e è suo onere dimostrare la mancata conoscenza incolpevole del provvedimento di cui all’art. 656 comma 5 c.p.p., ovvero impugnare l’ordine davanti al giudice dell’esecuzione per nullità del decreto di irreperibilità.

In relazione alla pena pecuniaria, nel sistema precedente la riforma, ai sensi dell’art. 235 t.u. spese di giustizia  in caso di esecuzione della sola pena pecuniaria la notifica ex art. 143 c.p.c. della ingiunzione di pagamento era ostativa alla iscrizione a ruolo. In caso in cui la condanna comprendesse anche la pena detentiva la cancelleria rimetteva gli atti al p.m. per la notifica ex art. 159 c.p.p., e, solo  nel caso il condannato ritornasse reperibile,  il credito veniva nuovamente  iscritto a ruolo. Tale disposizione, “congelando” di fatto la procedura, impedisce che possa procedersi a conversione nel caso di irreperibilità, in conformità agli arresti giurisprudenziali.

Già dal 1996, infatti, la Suprema Corte, nella  sentenza  a Sezioni Unite Nikolic[58] aveva escluso che si potesse procedere a conversione delle pene pecuniarie in caso di irreperibilità, proprio perché tale stato non consentiva al magistrato di sorveglianza di raccogliere elementi per l’accertamento della insolvenza o insolvibilità del condannato.

Certamente anche nella disciplina riformata i principi indicati dalla Suprema Corte sui poteri di conversione in mancanza di reperibilità possano essere di guida all’interprete nella ricostruzione della procedura da seguire.

Resta dubbio se, in caso di irreperibilità del destinatario della notifica dell’ordine di esecuzione/ingiunzione ex art. 660 commi 1 e 2 c.p.p. ai sensi dell’art. 159 c.p.p. [59], irreperibilità accertata in seguito a indagini scrupolose,   il p.m. sia tenuto comunque a trasmettere gli atti al magistrato di sorveglianza per la conversione.

Ritenendo che il p.m. non possa entrare  in alcun modo nella valutazione della possibilità di conversione,  e comunque ricalcando lo schema dell’art. 656 comma 5 c.p.p., si potrebbe ipotizzare che, a seguito di irreperibilità ed emesso il relativo decreto, il p.m. perfezioni la fase  notificando l’atto al difensore. Poi, scaduti i termini e verificato il mancato pagamento (che potrebbe avvenire anche da parte di terzi), trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza per la conversione. Si ritiene che il magistrato di sorveglianza, dovrebbe essere tenuto a svolgere le ricerche e solo in caso di conferma della irreperibilità del condannato con conseguente impossibilità di verifica delle sue condizioni economiche, possa restituire gli atti al p.m.

Mentre in passato, sulla scorta della sentenza Nikolic, in considerazione della attribuzione della competenza alla  riscossione delle pene pecuniarie in capo alla cancelleria del giudice della esecuzione si escludeva che il p.m. potesse (e dovesse) procedere a nuove ricerche del condannato (non potendo ritenersi il p.m.  un organo “servente” alla cancelleria)[60], con l’attuale attribuzione al p.m. della competenza esecutiva  è invece ipotizzabile che una volta restituiti gli atti dal magistrato di sorveglianza l’ufficio requirente (presso il giudice dell’esecuzione, come si è detto) dovrebbe riprendere le ricerche, o comunque rinnovare quelle già a suo tempo inserite in SDI.

Ma, evidenziando la diversità di funzione tra la notifica del decreto di sospensione ex art. 656 comma 5 c.p.p., solo di tipo sospensivo/informativo e quella dell’ordine ex art. 660 c.p.p. di vera e propria ingiunzione al pagamento diretta al condannato entro un termine, potrebbe anche ritenersi  che la notifica che fa decorrere il termine di novanta giorni sia solo quella effettivamente ricevuta dal condannato, e dunque in caso di irreperibilità, fatta salva la notifica al difensore del relativo decreto,  il p.m. non possa avviare il procedimento di conversione e debba limitarsi  a andare avanti nelle ricerche. Questo avrebbe il pregio di evitare un  inutile passaggio al magistrato di sorveglianza che peraltro ha i medesimi poteri investigativi del p.m. nell’accertare la reperibilità a la condizione economica del condannato e che dovrebbe comunque restituire gli atti.

Ma fino a quando può essere cercato il condannato? Il tema è  quello della estinzione della pena per decorso del tempo. 

14. L’irreperibilità e la estinzione della pena pecuniaria per decorso del tempo

Ai sensi degli artt. 172 e 173 c.p., la pena (anche pecuniaria) si estingue decorso un termine dal passaggio in giudicato della sentenza ovvero dalla scadenza di un termine o dal verificarsi di una condizione cui è subordinata l’esecuzione della pena.  La multa  si “prescrive” nel termine di dieci anni, ovvero, se congiunta a pena detentiva, nel tempo corrispondente all’estinzione di quest’ultima -pari al doppio della pena concretamente inflitta – con un minimo di dieci anni e un massimo di trenta. Per le pene da delitto l’effetto prescrittivo viene espressamente escluso dall’art. 172, comma settimo, c.p. per i recidivi, per i delinquenti professionali, abituali o per tendenza e per coloro che, durante il tempo previsto per l’estinzione della pena, riportano una condanna alla reclusione per un delitto della stessa indole.

L’ammenda invece, così come l’arresto,  si prescrive nel termine di cinque anni. Per i recidivi, per i delinquenti professionali, abituali o per tendenza il termine è raddoppiato. Non vi sono motivi impeditivi all’esito  prescrittivo.

Le circostanze che escludono la prescrizione sono veri e propri fatti impeditivi, né l’istituto soggiace alle regole della sospensione e della interruzione proprie della estinzione dei reati[61].

La norma trova il suo fondamento   – come la prescrizione (ed infatti la giurisprudenza la definisce “prescrizione della pena”) – sul venir meno dell’interesse pubblico alla punizione una volta decorso un certo lasso di tempo dalla condanna. La dottrina ha parlato di un “rapporto di proporzione inversa esistente tra il decorso del tempo e la potestà punitiva dello Stato, che si concretizza nell’irrogazione delle sanzioni penali”[62]. Ulteriore principio a fondamento dell’istituto, l’interesse del condannato a non restare a tempo indeterminato in attesa di una attività esecutiva.

L’inizio della esecuzione, cioè il momento in cui lo Stato esercita la sua potestà punitiva,  “blocca” il decorso della prescrizione, che comunque ricomincia a decorrere al momento della volontaria sottrazione alla esecuzione già iniziata (art. 172 comma 5 c.p.).   Da tale norma si evince  che l’inizio della esecuzione  non costituisca  un fatto impeditivo in senso tecnico, legato alla condotta del condannato o alla sua qualità personale di recidivo (o dichiarato delinquente professionale ecc…) ma un vero e proprio termine finale, che infatti al momento della recuperata libertà ricomincia a decorrere per intero.

Il dies a quo dal quale computare il decorso del termine prescrizionale è il passaggio in giudicato della sentenza, ma solo laddove possa fungere da “titolo esecutivo”, cioè sia “teoricamente” eseguibile[63], mentre l’inizio della esecuzione è da individuare al momento della carcerazione (o, per l’affidamento in prova ai servizi sociali al momento della sottoscrizione del verbale di affidamento)[64]”. Una ricostruzione completa del sistema della prescrizione delle pene in questo senso è stata di recente operata dalla sentenza a Sezioni Unite Scott Uhuwamango n. 46387 del 15/07/2021,   Rv. 282225, che ha escluso che la decorrenza parta dalla “concreta” eseguibilità del titolo, ovvero al momento in cui la pena possa avere esecuzione per conclusione di ogni elemento condizionante o sospensivo, ad esempio la sospensione ex art. 656 comma 5 c.p.p., ancorandola invece ad una data certa, come quella del passaggio in giudicato per sentenza di condanna a pena determinata.

Analogamente, ricostruisce il termine finale di decorrenza (“l’inizio della esecuzione”) per la pena carceraria disancorandolo da ogni attività degli organi deputati alla esecuzione e fissandolo solo nell’inizio della sottoposizione a misura[65].

Nel sistema previgente, la Suprema Corte si era trovata a dare indicazioni per individuare il momento dell’”inizio della esecuzione” (fermo restando il dies a quo) particolarmente problematico, per i diversi passaggi che compongono il procedimento di esecuzione delle pene pecuniarie.

Certamente l’esecuzione doveva ritenersi iniziata al momento della conversione della pena disposta dal magistrato di sorveglianza.  La terza Sezione della Corte nella sentenza n. 11464 del 19/01/2001 Rv. 21875, Nicolosi, nell’indicare questo principio di diritto, in motivazione fa riferimento specifico a tutti i passaggi a partire dalla notifica dell’estratto esecutivo al condannato con l’intimazione al pagamento/atto di precetto, che considera primo atto della esecuzione, ai sensi dell’allora vigente art. 181 disp. att. c.p.p.[66].

Anche “l’effettuazione del pagamento parziale ne impedisce l’estinzione, indipendentemente dalla circostanza che ad esso seguano altri pagamenti fino al completo adempimento del debito, ovvero che sia stata successivamente notificata una cartella esattoriale per la somma residua” (Sez. 3, Sentenza n. 17228 del 03/11/2016 Ghidini, Rv. 269981). Questa sentenza consente di confermare anche per la pena pecuniaria l’idea secondo cui  l’inizio della esecuzione non operi come  “fatto impeditivo” in senso stretto, ma come termine finale che “chiude” ogni possibilità di prescrizione[67].

Né è da ritenere “sospeso” il termine durante il periodo di carcerazione del condannato[68]. Così Sez. 1, Sentenza n. 8166 del 16/01/2018 Esposito Rv. 272418 “Il termine di prescrizione della pena pecuniaria individuato dall’art. 172, comma terzo, cod. pen. è determinato “per relationem”, in funzione di quello applicabile alla pena detentiva congiuntamente inflitta, e non è influenzato da vicende successive, quali quelle concernenti l’esecuzione della predetta sanzione detentiva o la sua stessa estinzione. (In applicazione del principio, la Corte ha annullato l’ordinanza del giudice dell’esecuzione che aveva ritenuto sospeso il termine di prescrizione della pena pecuniaria durante l’espiazione di quella detentiva)”.

Infine, la giurisprudenza più recente, fondandosi sugli artt. 212 e 227 ter t.u. spese di giustizia, (Sez. 1,  Sentenza n. 22312 del 08/07/2020 Vitobello Rv. 279453) ha ritenuto che fatto impeditivo del decorso della prescrizione fosse unicamente “l’inizio dell’esecuzione”,  da individuare nel momento in cui “il debito erariale viene iscritto a ruolo, oppure, secondo una tesi alternativa, quando venga notificata la cartella esattoriale”. In quel momento lo Stato manifesta infatti la sua pretesa punitiva, fermando per sempre il decorso della prescrizione.

La procedura per i condannati irreperibili non trovava comunque alcun ostacolo al decorso dei termini per l’estinzione della pena. Ai sensi dell’art. 235 t.u. spese di giustizia, infatti, in caso di irreperibilità del destinatario della notifica dell’invito al pagamento la iscrizione a ruolo non avveniva, e dunque non si aveva mai un “inizio della esecuzione”. 

Nel sistema disegnato dalla riforma, non vi è il passaggio della iscrizione a ruolo, dunque secondo quali modalità opera la estinzione della pena per decorso del tempo? 

Il legislatore ci dà una risposta nel comma 10 del novellato art. 660 c.p.p., che tratta della richiesta del condannato di differimento al magistrato di sorveglianza. La norma precisa: “ai fini della estinzione della pena pecuniaria per decorso del tempo, non si tiene conto del periodo durante il quale la conversione è differita”. Da questo inciso si desume che, prima della ordinanza di conversione, anche durante il periodo in cui il magistrato di sorveglianza svolge i suoi accertamenti, non vi è alcuna attività di avvio della esecuzione.  Non solo, ma si desume anche che unico atto sospensivo sia il differimento su richiesta ad opera del magistrato di sorveglianza.

Per questo, rispondendo alla domanda posta alla fine del precedente paragrafo, si può ragionevolmente ritenere che la ricerca dell’irreperibile per la notifica dell’ordine/ingiunzione e poi per la conversione della pena pecuniaria trovi la sua conclusione temporale nella estinzione per “prescrizione”. Laddove quindi la trasmissione degli atti per la conversione si sia interrotta per irreperibilità del condannato (e dunque impossibilità di accertamento[69]), con la restituzione degli atti al p.m. da parte del magistrato di sorveglianza, le eventuali rinnovate ricerche o il mantenimento delle previgenti potrebbero andare avanti solo fino alla estinzione della pena (salvo che per altri impedimenti, quale ad esempio la “recidiva ostativa” che escludono in toto l’effetto estintivo).

Viceversa, nel caso in cui l’ordine/ingiunzione sia notificato, la pena non pagata si prescrive se nel termine estintivo di legge non venga emessa l’ordinanza di conversione. Tale atto, invece, impedisce per sempre il decorso della prescrizione.

Nel caso invece che il condannato inizi a pagare, è da ritenere, sulla scorta  di quanto indicato dalla Corte di Cassazione  nella citata sentenza della terza Sezione del  2016 Ghidini, che l’esecuzione abbia avuto inizio e dunque – indipendentemente se si proceda o meno a conversione per il residuo – la prescrizione non possa più realizzarsi. 

15. Entrata in vigore della riforma

Ai sensi dell’art. 97 d.lgs. 150/2022 (disposizioni transitorie in materia di esecuzione e conversione delle pene pecuniarie) è disposto che” 1. Salvo che risultino più favorevoli al condannato, le disposizioni in materia di conversione delle pene pecuniarie, previste dall’articolo 71 e dal Capo V della legge 24 novembre 1981, n. 689, come modificate dal presente decreto, si applicano ai reati commessi dopo la sua entrata in vigore. 2. Fermo quanto previsto dal comma 1, ai reati commessi prima della data di entrata in vigore del presente decreto continuano ad applicarsi le disposizioni in materia di conversione ed esecuzione delle pene pecuniarie previste dal Capo V della legge 24 novembre 1981, n. 689, dall’articolo 660 del codice di procedura penale e da ogni altra disposizione di legge, vigenti prima della data di entrata in vigore del presente decreto. 3. Le disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, abrogate o modificate dal presente decreto, nonché’ le disposizioni di cui all’articolo 1, comma 367, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, continuano ad  applicarsi in relazione alle pene pecuniarie irrogate per reati commessi prima della sua entrata in vigore”.

Anche in mancanza di norma transitoria, era comunque da ritenere che le disposizioni – in quanto direttamente  incidenti sul trattamento sanzionatorio – benché inserite nel codice di rito, fossero “sostanzialmente” di natura penale[70]e dunque non applicabili ai procedimenti per reati commessi in vigenza del regime precedente. L’irretroattività consegue peraltro al fatto che, in generale, il nuovo regime prevede per il condannato insolvente un trattamento peggiore di quello ante riforma. La Relazione del Massimario[71]  osserva infatti che la disciplina, per il complessivo irrigidimento dei presupposti della conversione sarebbe da ritenersi “peggiorativa” e dunque irretroattiva. Lascia un limitato spazio alla possibile retroattività in concreto alla disciplina di favore dettata in tema di rateizzazione a seguito della intimazione di pagamento della pena pecuniaria, “atteso l’ampliamento delle possibilità di richiesta dell’agevolazione e la intervenuta dilatazione dei tempi di pagamento e del numero delle rate mensili in cui questo può essere suddiviso ex art. 133-ter cod. pen”.

La conclusione è tendenzialmente da condividersi: d’altra parte anche per l’insolvente “incolpevole” di cui all’art. 103 del t.u. spese di giustizia richiamato dall’art. 660 c.p.p., l’esito della conversione è l’applicazione della detenzione domiciliare o del lavoro di pubblica utilità sostitutivo, entrambe le misure  maggiormente gravose che la libertà controllata applicata nella vigenza del regime precedente.

Peraltro,  la possibile natura più favorevole della nuova disciplina rispetto alla precedente in materia di misura della conversione derivante dalle diverse norme e pronunce che nel tempo hanno modificato, fino alla sentenza 1/2012 della Corte costituzionale, i termini di ragguaglio,  verrebbe ad incidere solo sulla misura della pena convertita e non sulla procedura di esecuzione/conversione[72].

In concreto,  la nuova procedura esecutiva dovrebbe dunque entrare in vigore per i fascicoli di esecuzione relativi a fatti commessi  dopo il 30 dicembre 2022. Ciò non significa però che le procedure organizzative e gli strumenti da parte del Ministero non debbano essere assunti con tempestività: infatti  i procedimenti con arresto in flagranza per reati, come la rapina o inerenti gli stupefacenti, in cui è prevista una pena pecuniaria, potrebbero divenire irrevocabili e dunque esecutivi in pochi mesi, con obbligo per le procure di procedere a notificare l’ordine di esecuzione/ingiunzione comprensivo di modalità di pagamento prevista dalla norma, verifica della inadempienza, trasmissione per la conversione, tutte attività estremamente difficoltose senza gli adeguati strumenti, tra cui modulistica, banche dati, sistema di produzione automatica del modello di pagamento ed altri previsti dal nuovo articolato.  

16. L’esecuzione europea

Naturalmente il procedimento, come nel sistema previgente,  vale anche per le pene pecuniarie oggetto di sentenza straniera riconosciuta in cui lo Stato italiano sia interessato per la esecuzione. Con il d.lgs. 15 febbraio 2016, n. 37, il legislatore nazionale ha dato attuazione alla decisione quadro 2005/214/GAI, con la quale gli Stati membri dell’Unione Europea hanno fissato – disciplinandone l’operatività – il principio del reciproco riconoscimento delle decisioni applicative di sanzioni pecuniarie, quale ulteriore strumento di cooperazione giudiziaria nell’Unione tanto in materia civile quanto in materia penale “al fine di facilitare l’esecuzione di dette sanzioni in uno Stato membro diverso dallo Stato in cui sono state comminate”  quando il condannato ha residenza ovvero beni in altro Stato membro[73]. La competenza è del procuratore generale presso la  Corte di appello competente  del luogo dove il condannato risiede o ha i beni. Questo ufficio, quando riceve da un altro Stato membro dell’Unione  europea,  ai fini  dell’esecuzione  in  Italia,  una  decisione   sulle   sanzioni pecuniarie, corredata dal certificato (modello da riempire), deve fare richiesta  di riconoscimento “senza ritardo” alla Corte competente.

Il riconoscimento della decisione straniera – poggiando sul reciproco affidamento fra gli ordinamenti dei Paesi membri – non è subordinato alla condizione che l’ordinamento processuale straniero e quello italiano siano del tutto simili o assimilabili e che la decisione cui sarà data esecuzione in Italia sia stata resa all’esito di un giudizio disciplinato da regole procedurali sovrapponibili a quelle dello Stato membro di esecuzione. Proprio per prevenire possibili ostacoli di natura processuale derivanti dalle disomogeneità nella previsione delle autorità competenti ad applicare le diverse pene pecuniarie, il legislatore comunitario ha, inoltre, espressamente previsto che possano essere riconosciute le decisioni applicative di sanzioni pecuniarie rese tanto dall’autorità giudiziaria, quanto dall’autorità amministrativa (art. 2 d.lgs. n. 37 del 2016). E’ prevista invece in via generale come limite al riconoscimento la “doppia incriminazione” ad eccezione delle ipotesi elencate all’art. 10, tra cui le sanzioni conseguenti a violazioni del codice della strada.

La possibilità di conversione della pene pecuniaria in pena diversa è subordinata al consenso dell’autorità richiedente espressa nel certificato, pertanto, se non sia stato espresso,  nel nuovo sistema in cui non vi è spazio per l’esecuzione forzata civile,  ciò  potrebbe essere di ostacolo  alla esecuzione.

 

[41] Più volte si è ritenuta la nullità in fase esecutiva della notificazione al domicilio eletto nella fase di cognizione (Sez. 3, n. 22778 del 11/04/2018, Scicolone, Rv. 273154; Sez. 1, n. 43551 del 10/10/2013, Ciranna, Rv. 257173; Sez. 3, n. 14930 del 11/02/2009, Amato, Rv. 243385). Non a caso, il condannato non detenuto ha l’obbligo di fare la dichiarazione o l’elezione di domicilio con la domanda con la quale chiede una misura alternativa alla detenzione (art. 677, comma 2-bis, cod. proc. pen.).

[42] Art. 161 c.p.p. comma 1. Il giudice, il pubblico ministero o la polizia giudiziaria, nel primo atto compiuto con l’intervento della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato non detenuto né internato lo invitano, a dichiarare uno dei luoghi indicati nell’articolo 157, comma 1, o un indirizzo di posta elettronica certificata ovvero a eleggere domicilio per le notificazioni dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, degli atti di citazione in giudizio ai sensi degli articoli 450 comma 2, 456, 552 e 601, nonché del decreto penale di condanna.

[43] Cfr. in relazione all’art. 656 comma 5 c.p.p., Cass., Sez. IV,  27 settembre 2002 n. 35979 RV 222577 ed altre.

1. La determinazione del domicilio dichiarato o eletto è valida per ogni stato e grado del procedimento, salvo quanto è previsto dagli articoli 156 e 613 comma 2 per le notificazioni dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, degli atti di citazione in giudizio ai sensi degli articoli 450, comma 2, 456, 552 e 601, nonché del decreto penale, salvo quanto previsto dall’articolo 156, comma 1

[44] Art. 164. Durata del domicilio dichiarato o eletto 1. La determinazione del domicilio dichiarato o eletto è valida per ogni stato e grado del procedimento, salvo quanto è previsto dagli articoli 156 e 613 comma 2 per le notificazioni dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, degli atti di citazione in giudizio ai sensi degli articoli 450, comma 2, 456, 552 e 601, nonché del decreto penale, salvo quanto previsto dall’articolo 156, comma 1.

[45] 3.1.1 Per la proposizione dell’impugnazione è ora innanzitutto previsto che con l’atto di impugnazione delle parti private e dei difensori debba sempre essere depositata anche la dichiarazione o elezione di domicilio ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio ([4]). La sanzione è quella dell’inammissibilità dell’atto di impugnazione [581.1-ter]. L’indicazione pare inequivoca nel senso di un deposito contemporaneo dei due documenti (l’atto di impugnazione e la dichiarazione o elezione di domicilio), con la conseguenza che, in ogni caso, solo se il secondo documento sarà depositato entro la scadenza del termine per impugnare l’appello sarà ammissibile (prescindendo da ogni altra questione sulla sua autonoma ammissibilità formale).

La presenza di tale indicazione formale del proprio domicilio da parte dell’imputato dovrà pertanto essere oggetto di specifica verifica già nello spoglio preliminare dei fascicoli pervenuti. 

Si è scelto di evitare alcun automatismo, con una imposta elezione di domicilio presso il difensore che assiste l’imputato, perché foriero di potenziali problematiche sull’effettiva conoscenza della citazione per quanto attiene all’evoluzione possibile del rapporto e contatto tra difensore (pur diligente) ed assistito, dopo la proposizione dell’impugnazione. La dichiarazione o elezione di domicilio (che appunto va depositata anche quando l’atto sia materialmente redatto e depositato dal difensore) deve, per logica sistematica, essere successiva alla deliberazione della sentenza impugnata: essa infatti è appunto finalizzata a consentire la efficace e tempestiva citazione per quel giudizio di appello che proprio dall’imputato e nel suo interesse viene espressamente richiesto. Nelle indagini preliminari e nel giudizio di primo grado è fisiologico che sia lo Stato a dover cercare la persona nei cui confronti si procede e informarlo dei passaggi essenziali del procedimento e, in particolare, della fase processuale. Ma quando appellante è solo la parte privata, che è pertanto il soggetto processuale che attiva il secondo grado di giudizio che impedisce l’immediata irrevocabilità della prima decisione, era e rimarrebbe francamente poco comprensibile che l’ “attore” si possa poi sottrarre al tempestivo rintraccio per atti che sono indispensabili per giungere a quel giudizio rivisitante che proprio lui ha chiesto.

La dichiarazione o elezione di domicilio (ovviamente quest’ultima anche presso il difensore che assiste l’imputato al momento del deposito dell’atto di appello) deve quindi essere depositata sia che l’imputato abbia presenziato al giudizio sia in caso di sua assenza dichiarata dal primo giudice ([5]).

3.1.2. Per i soli imputati dichiarati assenti, invece, per proporre l’atto di impugnazione il difensore deve essere munito di specifico mandato ad impugnarerilasciato dopo la pronuncia della sentenza, da intendersi anche solo la pubblicazione del dispositivo. Tale mandato deve contenere anche la dichiarazione o l’elezione di domicilio dell’imputato ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio [581.1-ter] ([6]).

[46] I provvedimenti del pubblico ministero dei quali è prescritta nel presente titolo la notificazione al difensore, sono notificati, a pena di nullità [177186], entro trenta giorni dalla loro emissione, al difensore nominato dall’interessato o, in mancanza, a quello designato dal pubblico ministero a norma dell’articolo 97, senza che ciò determini la sospensione o il ritardo dell’esecuzione.

[47] Cfr. Cass. Sez. I,  21 febbraio 2017, n. 39894, Seck,  non massimata.

[48] Legge 16 febbraio 1987, n. 81. Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale. Art. 2 direttiva 96).

[49] Cass., Sez. VI, 8 marzo 1995 n. 843, RV n. 201441;Cass., Sez. I, 19 aprile 2000 n. 3043, RV  n. 216095;Cass., Sez. I, 6 maggio 2010, n. 20275, RV., n. 247212; Cass., Sez. III, ordinanza 15 novembre 2002 n. 1715 RV., n. 223278; Nella sentenza della seconda Sezione Ciausu (Cass., Sez. 2,  14 marzo 2002 n. 18136 RV., n. 221857, accompagnata da Relazione dell’ufficio del Massimario in cui si rileva la parziale discordanza di questa pronuncia da quelle precedenti. Relazione numero 20021059R Data 16/09/2002 

[50] Nella sentenza Ogyanov del 2018, la Suprema Corte, pur ribadendo la nullità dell’ordine di esecuzione non tradotto in lingua conosciuta dal condannato, ha precisato «Va incidentalmente rilevato che diverso esito s’imporrebbe nell’ipotesi viceversa regolata dall’art. 656, comma 5, cod. proc. pen.; qui, a fronte di pena residua espianda contenuta entro i limiti stabiliti, l’ordine di esecuzione (assieme al decreto di sospensione che in tal caso vi accede) si atteggia ad autonomo presupposto di specifici diritti e facoltà in capo al condannato, da esercitarsi prima della materiale carcerazione (mediante la presentazione, dalla libertà, delle istanze di misura alternativa), in grado di essere irrimediabilmente pregiudicati dai vizi dell’ordine stesso, anche ad esso immanenti; vizi che dunque si ripercuoterebbero sulla regolarità dell’espiazione che fosse ciò nonostante intrapresa

[51] La possibilità che sia trasmessa anche con mezzo postale è contemplata da Cass. Sez. I, 24 aprile 2013 n. 18441, RV. 255852  e il termine è quello della ricezione.

[52] Cass., Sez. I, 17 marzo 2005, n. 12329,  RV n.231440

[53] p.221.

[54] V. infra, par. 9, in cui si sostiene che il controllo sulla reperibilità sia da svolgere comunque da parte del p.m. successivamente alla restituzione degli atti da parte del magistrato di sorveglianza per irreperibilità.

[55]  Cfr., da ultimo, Sez. 1 – , Sentenza n. 13985 del 25/02/2020 Cc.  (dep. 07/05/2020 ) Rv. 278939

[56] In questo senso, sulle sanzioni del d.lgs. n. 277 del 1991 sulla sicurezza del lavoro, vedi Cass., Sez. III, 27 giugno 1995, n. 9775, RV, n. 202951. Le pronunce sono relative alla pena pecuniaria: cfr. da ultimo, Cass., Sez. III, 6 dicembre 2012, n. 2302, RV. 254140; Cass., Sez. III, 12 marzo 1998, n. 5590, RV. 210939.

[57] Secondo la giurisprudenza sul 656 comma 8 bis c.p.p., la disposizione non si applica agli irreperibili. Cfr. Cass., Sez. I, 30 novembre 2017 n. 1779, in C.E.D. Cass., n. 272054.

[58] Sez. U, n. 35 del 25/10/1995, dep. 1996, Nikolic, Rv. 203295, in motivazione, fa riferimento alla insolvibilità come condizione oggettiva di impossibilità di esazione della pena pecuniaria (nella specie, nei confronti di condannato irreperibile), che legittima la trasmissione degli atti al magistrato di sorveglianza. Sul medesimo tema, Sez. 1, n. 2668 del 02/05/1995 P.M. min. in proc. Duri, Rv. 201480, ha affermato che In tema di conversione di pene pecuniarie per insolvibilità del condannato, atteso che l’accertamento della insolvibilità compete, ai sensi dell’art. 660, comma secondo, c.p.p., al magistrato di sorveglianza, questi, anche quando la impossibilità di esazione che ha dato luogo alla trasmissione degli atti da parte del pubblico ministero sia dovuta a irreperibilità del condannato, non può per ciò solo restituire gli atti medesimi al summenzionato ufficio, ma deve invece disporre comunque le opportune indagini in ordine alla solvibilità del soggetto ed al connesso punto della reperibilità di costui. Ancora, deve essere ricordato come la Corte costituzionale con ordinanza 107 dicembre 1997 n. 416 abbia dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 660 c.p.p. sollevata nella parte in cui non consente la conversione delle pene pecuniarie non recuperate per insolvibilità del condannato ove quest’ultimo risulti irreperibile.

[59]L’ art. 159 c.p.p., non è stato modificato dalla riforma in modo sostanziale.

[60] In motivazione: “Neppure condivisibile appare, però, la soluzione adottata dall’altro indirizzo giurisprudenziale, perché pone a carico del P.M. l’onere di accertare l’effettiva insolvibilità del condannato, in contrasto con Il regolamentazione che sembra discendere dal combinato disposto degli art. 660 comma 2 c.p.p., 181 e 182 delle disp.att.al c.p.p..

Benvero, da un armonico coordinamento delle richiamate norme, appare evidente che il compito del P.M. nella procedura in argomento è limitato, soltanto, ad un controllo formale dell’attività svolta dalla cancelleria del giudice dell’esecuzione cui fa carico, istituzionalmente. ai sensi dell’art. 181 disp. att. c.p.p., l’attivazione della procedura volta al “recupero delle pene pecuniarie” per accertare “la impossibilità di esazione della pena pecuniaria, o di una rata di essa”.

Il P.M., cioè, ha il compito , una volta che quella cancelleria gli ha trasmessi gli atti riguardanti la procedura di recupero risoltasi con esito negativo, di accertare se le ragioni di tale esito siano tali da dar luogo ad una effettiva “impossibilità” di esazione della pena pecuniaria, ovvero se risultino, in qualche modo, superabili: in questa seconda ipotesi, il P.M. dovrà restituire gli atti alla predetta cancelleria perché riprenda la procedura di riscossione, mentre nella prima ipotesi, dovrà rivolgersi come espressamente previsto dall’art. 660, co. 2 C.P.P. al magistrato di sorveglianza, perché, questi, provveda alla conversione, previo accertamento dell’effettiva insolvibilità del condannato.

Appare, quindi, chiaro che la legge affida al giudice dell’esecuzione e, per esso, alla cancelleria del suo ufficio il compito di accertare la permanenza dell’insolvenza e l’insorgenza delle ragioni che rendano possibile l’ulteriore accertamento dell’effettiva insolvibilità, mentre, al P.M. è devoluto il controllo di cui innanzi ed al magistrato di sorveglianza è demandata l’attività di accertamento per il passaggio dalla situazione fisiologica di insolvibilità per impossibilità ad insolvenza effettiva e concreta.

Alla stregua di tali constatazioni, è da riconoscersi che si impone una terza soluzione interpretativa – rispetto alle due precedentemente ricordate -, per la quale, riscontrata dal magistrato di sorveglianza, nell’ambito del procedimento volto ad accertare la sussistenza, o meno, dello stato di insolvenza, l’irreperibilità del condannato e, quindi, la impossibilità di dichiarare il predetto stato di insolvenza, gli atti dovranno essere restituiti al P.M. (non potendosi dar luogo al provvedimento di conversione), ed il P.M., a sua volta, dovrà restituirli alla cancelleria del giudice dell’esecuzione, perché provveda a rinnovare periodicamente la procedura dell’esecuzione, essendo detto ufficio come già in precedenza rilevato quello istituzionalmente preposto alla riscossione delle pene pecuniarie”.

[61] All’istituto della prescrizione della pena delineato dagli artt. 172 e 173 cod. pen., al quale, a differenza di quanto previsto per la prescrizione del reato, non sono applicabili gli istituti della sospensione e dell’interruzione (cfr. Sez. U, n. 2 del 30/10/2014, dep. 2015, Maiorella, Rv. 261399), né quello della rinuncia da parte del condannato.

[62] R. GARGIULO-M. VESSICHELLI, Art. 172, in Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e dottrina, a cura di E. Lupo e G. Lattanzi, Giuffrè, Milano, 2010, V, pp. 480 ss.. Una completa ricostruzione dell’istituto si ha nella relazione svolta al corso organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura dal 19 al 21 settembre 2016, intitolato “La pena: calcolo, determinazione, giustificazione, prescrizione” da A.CENTONZE Il decorso del tempo e i suoi effetti sull’esecuzione della pena: aspetti problematici in tema di prescrizione della pena e pubblicata in Diritto Penale Contemporaneo.  

[63] Non vi è eseguibilità concreta, ad esempio, nel caso di sentenza che statuisce sulla responsabilità rinviando per la determinazione della pena. (Sez. U, n. 4460 del 19/01/1994, Cellerini, Rv. 196889). V. Anche Sez. U, n. 4904 del 26/03/1997, Attinà, Rv. 207640, «l’irrevocabilità può non coincidere con la definitività del decisum quando […] si sia formato un giudicato (parziale) sulla responsabilità dell’imputato e non è ancora intervenuta la determinazione della pena e quindi la sentenza non è ancora utilizzabile come titolo esecutivo». A distinguere il momento in cui la sentenza assume autorità di cosa giudicata dal momento in cui diviene titolo esecutivo, Sez. U, n. 3423 del 29/10/2020, dep. 2021, Gialluisi, Rv. 28026.

[64] Sez. 1  , Sentenza n. 57890 del 26/06/2018  Zonta, Rv. 274660

[65] Osserva la Relazione del Massimario alla sentenza Uhuwamango che “la soluzione accolta da Sez. U, Uhuwamangho, trova giustificazione anche nei principi costituzionali e convenzionali di ragionevole durata del processo, di sollecita definizione e di minor sacrificio esigibile per il condannato e di finalità rieducativa della pena, evincibili dagli artt. 111, secondo comma, 27, terzo comma, Cost.; 5 e 6 CEDU, evitando che il condannato sopporti l’incertezza di una decorrenza soggetta alle variabili contingenze processuali, sulle quali non può in alcun modo incidere, e che l’esecuzione avvenga a grande distanza di tempo dalla data di commissione del reato e dalla data di irrevocabilità della sentenza di condanna. Invero, l’interpretazione che intende applicare l’art. 172, quinto comma, nel caso di sospensione dell’esecuzione ex art. 665, comma 5, cod. proc. pen., entrerebbe in tensione anche con il principio costituzionale di uguaglianza secondo due prospettive. In primo luogo, con riferimento ai condannati nella medesima posizione, rispetto ai quali l’inizio dell’esecuzione della sentenza di condanna o della misura alternativa alla detenzione potrebbe realizzarsi in momenti differenti, in conseguenza di circostanze del tutto indipendenti dalla loro volontà, quale il tempo necessario per la notifica del decreto del pubblico ministero di carcerazione e contestuale sospensione dell’esecuzione, ovvero quello di decisione sull’istanza di misure alternative alla detenzione da parte del tribunale di sorveglianza”.

[66] Così la motivazione: “Ma – come ricorda opportunamente il pubblico ministero requirente – la conversione della pena pecuniaria per insolvibilità del condannato, se non configura un atto interruttivo della prescrizione, costituisce però un atto vero e proprio di esecuzione della pena (per l’ordinanza impugnata è solo un equipollente dell’esecuzione). Infatti: a) ai sensi dell’art. 181 disp. att. cod. proc. pen., collocato entro il capo 15^, contenente le disposizioni relative alla esecuzione, l’esecuzione delle pene pecuniarie inizia con la notifica al condannato dell’estratto della sentenza in forma esecutiva, unitamente all’atto di precetto, contenente l’intimazione di pagare entro dieci giorni: sicché tutti gli atti successivi e conseguenti rientrano nella procedura di esecuzione della pena; b) ai sensi del successivo art. 182 disp. att. cod. proc. pen., se la procedura esecutiva ha esito negativo, la cancelleria del giudice dell’esecuzione rimette gli atti al pubblico ministero, il quale a norma dell’art. 660 c.p.p. trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza competente, che a sua volta, se accerta l’insolvenza del condannato, dispone la conversione della pena pecuniaria nella pena detentiva, salvo che non ritenga di rateizzare la pena pecuniaria oppure di differire brevemente la conversione, per verificare la persistenza dell’insolvenza; c) anche da un punto di vista dommatico, la conversione della pena pecuniaria, si configura come un provvedimento giudiziario che concretizza il rapporto punitivo stabilito nella condanna, modificandone soltanto la modalità esecutiva: e in tal modo rivela i caratteri propri della esecuzione penale; d) se poi si considera la ratio che ispira l’istituto della prescrizione penale, appare evidente che la conversione della pena pecuniaria, lungi dall’indicare una rinunzia all’esercizio della potestà punitiva, configura al contrario proprio la concreta volontà dello Stato di dare esecuzione alla pena; e) anche la competenza attribuita al magistrato di sorveglianza (art.660 c.p.p) denota la natura esecutiva della conversione; f) l’inciso dommaticamente improprio, contenuto nell’ultimo periodo del terzo comma art. 660 c.p.p., secondo cui “ai fini della estinzione della pena per decorso del tempo, non si tiene conto del periodo durante il quale l’esecuzione (della conversione) è stata differita” per verificare la persistenza dell’insolvibilità del condannato, sotto il profilo sistematico non può qualificarsi come “sospensione” della prescrizione; ma si spiega piuttosto come una irrilevanza di quel segmento temporale derivante dal fatto che lo Stato ha già esercitato in concreto la sua potestà punitiva, limitandosi solo a differire nel tempo la conversione della pena pecuniaria in quella detentiva”.

[67] In senso contrario, LEPERA MIl condannato che “smette di pagare” la pena pecuniaria dell’ammenda: un caso di sottrazione volontaria alla esecuzione della pena rilevante ai fini dell’individuazione del “dies a quo” per il decorso del termine di prescrizione della pena. Cass. Pen., 2017, fasc. 9 p. 3240, nota a Sez. 3, Sentenza n. 17228 del 03/11/2016.

[68] Così Sez. 1, Sentenza n. 8166 del 16/01/2018 Esposito Rv. 272418 “Il termine di prescrizione della pena pecuniaria individuato dall’art. 172, comma terzo, cod. pen. è determinato “per relationem”, in funzione di quello applicabile alla pena detentiva congiuntamente inflitta, e non è influenzato da vicende successive, quali quelle concernenti l’esecuzione della predetta sanzione detentiva o la sua stessa estinzione. (In applicazione del principio, la Corte ha annullato l’ordinanza del giudice dell’esecuzione che aveva ritenuto sospeso il termine di prescrizione della pena pecuniaria durante l’espiazione di quella detentiva)”.

 

[69] Sez. U, n. 35 del 25/10/1995, dep. 1996, Nikolic, Rv. 203295.

[70] Sulla natura sostanziale delle pene convertite,  vedi Sez. U, Sentenza n. 12872 del 19/01/2017, Punzo,  Rv. 269125: “ Merita in primo luogo piena condivisione la tesi della natura di vera e propria pena autonoma delle sanzioni sostitutive, piuttosto che di semplice modalità esecutiva della pena sostituita, sostenuta già in tempi risalenti dalle Sezioni Unite sul rilievo del carattere afflittivo delle prime, della loro convertibilità – in caso di revoca – nella pena sostituita residua, dello stretto collegamento con la fattispecie penale cui conseguono, con la rilevante conseguenza, nel caso allora esaminato, del riconoscimento della natura sostanziale delle disposizioni che le contemplano, soggette, in caso di successione di leggi nel tempo, alla disciplina di cui all’art. 2, terzo comma, cod. pen., che prescrive l’applicazione della norma più favorevole per l’imputato (Sez. U, n. 11397 del 25/10/1995, Siciliano, Rv. 202870). Tesi ribadita, contestualmente, da Sez. 1, n. 12732 del 27/10/1995, Abbatelli, Rv. 203349, e, successivamente, da Sez. 1, n. 43589 del 13/10/2004, Massiah, Rv. 229818, che hanno sottolineato come le disposizioni in tema di “sostituzione” delle pene detentive brevi, dettate dagli artt. 53 e segg. della legge 24 novembre 1981 n. 689, costituiscano un sistema sanzionatorio “parallelo” a quello “ordinario” connotandosi quindi inequivocabilmente come norme penali sostanziali governate dal principio generale della lex mitior.”

[71]P. 232:  “Il secondo comma prevede, inoltre, espressamente, che ai reati commessi prima dell’entrata in vigore del presente decreto continuano ad applicarsi le disposizioni in materia di conversione ed esecuzione delle pene pecuniarie previste dal Capo V della l. n. 689 del 1981, dall’art. 660 cod. proc. pen. e da ogni altra disposizione di legge, vigenti prima dell’entrata in vigore del presente 444 La legge n. 134 del 2021, all’art. 1, comma 17, ha delegato il Governo a riformare la disciplina delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, contenuta negli articoli 53 e seguenti della legge n. 689 del 1981, con la finalità di anticipare l’applicazione delle sanzioni sostitutive già in fase di cognizione, sgravando così la magistratura di sorveglianza. Le nuove pene sostitutive – semilibertà, detenzione domiciliare, lavoro di pubblica utilità e pena pecuniaria – secondo la norma di delega dovranno essere infatti direttamente irrogabili dal giudice della cognizione, entro il limite di 4 anni di pena inflitta. 445 La base di calcolo della durata delle pene limitative della libertà personale, applicate in caso di conversione della pena pecuniaria, dipende anche e proprio dall’ammontare della pena pecuniaria, sulla base dei criteri di cui all’art. 133-bis cod. pen. Di qui, anche per eventuali esigenze di proporzione, che dalla pena pecuniaria possono estendersi a pene da conversione più afflittive, la necessità di una attenta commisurazione e individualizzazione del trattamento sanzionatorio, sorretta da adeguata motivazione (spesso nella prassi ridotta a clausole di stile) e corroborata dall’acquisizione di elementi di prova. Ne consegue una tendenziale irretroattività della nuova disciplina, che prevede un irrigidimento complessivo dei presupposti per l’esecuzione e la conversione della pena pecuniaria nei casi di insolvenza. 232 Ne consegue una tendenziale irretroattività della nuova disciplina, che prevede un irrigidimento complessivo dei presupposti per l’esecuzione e la conversione della pena pecuniaria nei casi di insolvenza. Un limitato ambito di applicabilità retroattiva potrebbe avere in concreto la disciplina di favore dettata in tema di rateizzazione a seguito della intimazione di pagamento della pena pecuniaria, atteso l’ampliamento delle possibilità di richiesta dell’agevolazione e la intervenuta dilatazione dei tempi di pagamento e del numero delle rate mensili in cui questo può essere suddiviso ex art. 133-ter cod. pen.”.

[72]V. A. BOGA, Libertà controllata: la pronuncia di incostituzionalità comporta, anche per le pene pecuniarie già convertite ma non ancora estinte, l’applicazione del nuovo criterio di conversione, in Giurisprudenza Penale Web, 2018, 6. Nota a  Tribunale di Sorveglianza di Milano, 16 aprile 2018. La pronuncia si sofferma sulla natura retroattiva delle norme più favorevoli relative al ragguaglio.

[73] Art. 9 (Condizioni per il riconoscimento): 

  1. La Corte  di  appello  riconosce  la  decisione  sulle  sanzioni pecuniarie quando ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni:

    a) la persona condannata dispone nel territorio  dello  Stato  di beni o di un reddito, ovvero risiede e dimora abitualmente, ovvero ha la propria sede legale;

    b) il fatto per cui è stata emessa la decisione è previsto come reato anche dalla legge nazionale,  indipendentemente  dagli  elementi costitutivi o dalla denominazione, salvo quanto previsto dall’articolo 10.

 

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