di Nicoletta Tempera
BOLOGNA
Il crac del Gruppo Maccaferri non fu l’esito finale di una bancarotta fraudolenta orchestrata dai quattro fratelli imprenditori bolognesi. Lo ha stabilito il gip Alberto Ziroldi, di fronte al quale, negli scorsi giorni gli imprenditori, attivi nei settori di edilizia, zucchero ed energia, hanno patteggiato pene pecuniarie lievissime. Un risultato ottenuto a seguito del lavoro delle difese dei sei imputati (i quattro fratelli e due loro cugine) che, nel corso dell’inchiesta, sono riuscite a fornire elementi tali da far sì che l’accusa venisse riqualificata, passando da un’ipotesi di bancarotta fraudolenta a un’ipotesi di bancarotta semplice da aggravamento del dissesto, legato al ritardo nella richiesta della procedura di fallimento.
Si conclude così una vicenda giudiziaria complessa, esplosa nel luglio del 2020 e che, in questi quattro anni, ha cambiato i destini delle aziende che facevano capo al Gruppo, tutte oggi acquisite da altre società. Nell’inchiesta, coordinata dall’aggiunto Francesco Caleca e dal pm Nicola Scalabrini, erano ancora coinvolti l’allora presidente del Cda della Seci, holding del gruppo Maccaferri, Gaetano Maccaferri, e i fratelli Alessandro Maccaferri, vice presidente, Antonio Maccaferri, consigliere del Cda e Massimo Maccaferri, socio come le cugine Angela Boni e Raffaella Boni. A difenderli, il professor Tommaso Guerini, il professor Vittorio Manes, il professor Nicola Mazzacuva, il professor Luigi Stortoni e il professor Gaetano Insolera, mentre le due cugine erano rappresentate dall’avvocato Marco Calleri del foro di Milano.
L’accusa da cui tutto era partito riguardava distrazioni di beni immobili per 58 milioni di euro: secondo gli inquirenti, nel 2017 (anno in cui si concentravano gli accertamenti sviluppati dalle Fiamme gialle) sarebbe stata effettuata dal Gruppo Maccaferri una scissione di ramo d’azienda immobiliare, realizzata da Seci in favore della neo costituita Sei Spa, controllata dagli imputati. Qui sarebbero confluiti un immobile di Zola delle Officine Maccaferri e gli immobili (per 66 milioni) della Seci, dopo averne acquistato le quote, e di altri immobili a Borgo Panigale e Bentivoglio, della Fortune 5 e della Samp Spa. Un ‘rastrellamento’ che, per l’accusa, sarebbe in ultima istanza servito a salvaguardare i beni da eventuali aggressioni patrimoniali. Gli sviluppi d’indagine si erano quindi concretizzati nel luglio 2020 nel sequestro preventivo, disposto dal gip Alberto Ziroldi, del capitale sociale e del relativo patrimonio della Sei Spa, pari a quasi 58 milioni di euro. Una ricostruzione contestata dalle difese, che avevano sin da subito ribadito l’assoluta correttezza dell’operato dei fratelli Maccaferri. E che oggi, all’esito della sentenza, che ha visto gli imputati patteggiare pene pecuniarie comprese tra i 27mila e i 42mila euro, sono soddisfatti: “La vicenda – spiegano –, caratterizzata da grande complessità tecnica, anche alla luce di un articolato confronto con le difese, ha visto cadere l’originaria ipotesi di bancarotta fraudolenta, e si è conclusa con un forte ridimensionamento delle contestazioni, che ha consentito una definizione concordata del procedimento, per un’ipotesi meramente colposa, con l’applicazione di una sanzione pecuniaria”.
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