Il dibattito sulla legge di bilancio è distratto da diversivi, fake news o discussioni aritmetiche su un pulviscolo di misure. Il problema, mi sembra, è il ritorno dell’austerità e la necessità di individuare una risposta politica all’altezza. Sperando che gli esiti siano diversi dalla prima austerità. L’Europa, e l’Italia, non si sono mai più riprese da allora.
Per trovare le soluzioni prima bisogna avere chiaro l’orientamento di fondo di quanto ha deciso il governo Meloni. In estrema sintesi: le banche sono state graziate, gli enti locali saranno massacrati, i servizi sociali già malmessi saranno penalizzati. I docenti a scuola perderanno alcuni migliaia di posti e l’università perderà più risorse oltre ai 173 milioni già tagliati al fondo per gli atenei e i 340 milioni per assumere professori associati e evitare il licenziamento di numerosi ricercatori con il contratto in scadenza. Nel 2025 la sanità avrà un rabbocco di risorse da 1,3 miliardi ben distante dai 3,7 promessi. Le assunzioni saranno rinviate al 2026.Poi chissà cosa accadrà. Il governo dovrà fare altri tagli l’anno prossimo
Le destre hanno firmato il nuovo “patto di stabilità” con la Commissione Europea. Ciò comporterà il congelamento della spesa sociale avrà effetti recessivi sulla domanda interna; il blocco dei servizi sociali aggraverà la condizione dei cittadini in povertà senza contare quella del precariato che vive di lavoro povero; la crisi drammatica della sanità è un altro volto di un Welfare a pezzi; la mancanza di investimenti aggraverà una crisi industriale dove la produzione è giunta al diciannovesimo mese di crollo consecutivo.
In questa situazione difficile Meloni e Giorgetti hanno preso decisioni politiche rilevanti. Il taglio delle risorse agli enti locali è una scelta. Pagheranno i cittadini ciò che avrebbero potuto pagare le banche, le assicurazioni, e tutte quelle imprese che hanno realizzato profitti speculativi dal Covid ad oggi. Senza contare i grandi patrimoni. Il ministro dell’economia Giorgetti ha spacciato per “sacrificio” quello che è solo un anticipo sulle tasse che le banche avrebbero dovuto pagare nei prossimi due anni. È un acconto concordato l’Associazione Bancaria Italiana (Abi) sull’anticipo delle imposte differite attive e sugli incrementi patrimoniali. Non è né un contribuito a fondo perduto, né una tassa. Chi dice che pagano le banche, lo ha detto qualche ministro, mente sapendo di mentire.
Prendiamo un’altra misura molto discussa sui giornali e in Tv negli ultimi giorni: il “bonus bebé”. Questo bonus sarebbe finalizzato a risolvere il problema della denatalità. Invece è più un’operazione di facciata che reale. Il numero dei nuovi nati, in calo continuo anno dopo anno, è stato nel 2023 pari a 379 mila. Il bonus sarà dato alle famiglie con reddito Isee inferiore ai 40 mila euro l’anno. Supponendo che le famiglie, che hanno fatto un figlio con reddito sino a questa soglia, siano il 70% del totale e supponendo che ci sia lo stesso numero di nati per il 2025 (poco probabile), il bonus verrebbe applicato a 265 mila famiglie per un esborso di 265 milioni di euro. Si tratta di una cifra ridicola che ovviamente non può invertire la tendenza verso la denatalità, non incide sui conti pubblici ma si presta alla propaganda.
La misura che prenderà più spazio della manovra,17,4 miliardi su 28, è il taglio del cuneo fiscale: l’obolo che ne deriva consentirà alle imprese di non dare aumenti salariali. Lo Stato, cioè noi, fa da sostituto! La ripartizione dell’Irpef in solo tre aliquote: 23% fino a 28.000 euro; 35% tra 28 mila e 50 mila; 43% oltre i 50 mila euro) non porta benefici alle fasce più povere (“incapienti”). E forse ne avrebbero bisogno di “aiuti”. Qualche briciola arriverà al cosiddetto “ceto medio”. Serve a integrare, a caro prezzo per la collettività, i salari che non crescono sia perché i contratti sono bloccati, sia perché prevedono aumenti ben inferiori alla maxi inflazione cumulata in questi anni. Basta pensare agli stipendi nella scuola. Giustamente ci sarà uno sciopero il 31 ottobre.
Nel disegno di politica fiscale la logica del governo Meloni è confermata. Saranno i benestanti a godere di una flat tax sopra i 50 mila euro con un ulteriore riduzione della progressività delle aliquote. Per ora sembra escluso l’aumento della flat tax per ricavi fino a 100mila euro: tutto dipenderà dalle entrate del concordato preventivo. Cioè da un accomodamento, o condono. Le tasse, quando calano, sono finanziate dal contribuente. Quando sono tagliate premiano i benestanti. L’ideologia sociale, e non solo fiscale, della destra sta qui.
Questa strategia ha un costo. Per finanziarla si è deciso un taglio lineare a ministeri e enti locali. È il cane che si morde la coda: meno trasporti, meno docenti, meno laureati, meno cure, e così via. È partito il nuovo, disastroso, round dell’austerità.
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