«In questi 9 anni da professionista ho imparato che la notte della vittoria è la più bella, ma la mattina dopo la tua testa va già sulla pagina successiva. Le sconfitte invece bruciano molto più a lungo e sono la migliore benzina a livello di motivazioni». A 26 anni, Filippo Tortu ne ha già viste abbastanza per parlare di vittorie e sconfitte, trionfi inimmaginabili e delusioni cocenti. In chiusura dell’anno olimpico, lo sprinter azzurro traccia un bilancio schietto, onesto ma anche scanzonato. Alla sua maniera.
Filippo, non le dispiace se la includiamo in questa serie di interviste con i sardi reduci da Parigi 2024?
«Niente affatto, anzi mi sarei offeso per il contrario. Ormai tutti conoscono la mia storia, sono nato e cresciuto in Brianza ma ho sangue sardo da parte di papà e soprattutto ho sempre coltivato un rapporto stretto con l’isola. Ero giù anche pochi giorni fa. Insomma, non devo spiegare niente come mi tocca fare ogni volta con i compagni azzurri…».
In che senso?
«Ci sono Dalia Kaddari e Lorenzo Patta che mi sfottono, dicono che non sono abbastanza sardo».
Lei come replica?
«Rispondo che sono l’unico tra tutti loro che ha il cognome che finisce con la “u”».
Gioco, partita, incontro. Ora che è andato in archivio, come valuta il suo anno olimpico?
«Dico che mi è piaciuto. È stato sofferto, complicato soprattutto nella parte finale. Ci sono tante cose che sono successe e che mi hanno messo alla prova. Ma il 2024 mi ha regalato tanto, sotto tanti punti di vista».
Dall’oro agli Europei di Roma al quarto posto a Parigi con la 4×100, sino alla mancata finale olimpica nei 200. Forse sono più le delusioni che le gioie.
«Bisogna accettare anche le sconfitte, magari valutandole in maniera onesta, e ripartire con ancora più motivazioni».
In che senso “in maniera onesta”?
«Solo io, il mio staff e i tecnici della nazionale sappiamo cosa c’è dietro ogni gara e ogni performance. Il resto sono chiacchiere».
C’è stata più pressione del solito, o più aspettative?
«Nessuno al mondo ha più aspettative di me per quanto riguarda le mie gare. L’Olimpiade è come l’impianto wi-fi che ho appena piazzato a casa, amplifica tutto e spara tutto a bomba. Capisco che i tifosi si aspettino tanto, che la stampa attenda dei trionfi, ma io su me stesso ho pretese altissime e tutto il resto sinceramente non esiste».
Non le interessa?
«No, tutt’altro. Però non posso vivere facendomi condizionare da un articolo in cui si parla benissimo di me, oppure malissimo. L’affetto dei tifosi lo sento e mi fa piacere. Ma leggere commenti sui social mi distrae e mi toglie energie, non posso entrare in un gioco simile. Gli unici giudizi che mi interessano sono quelli dei compagni, dello staff, e il mio. Perché siamo gli unici in possesso di tutti gli elementi per valutare. E una vittoria o una sconfitta, magari per un centesimo, non cambiano la percezione che ho del mio impegno quotidiano e degli sforzi che faccio».
Fuor di metafora: una performance come quella nella finale di Tokyo è irripetibile?
«Quella fu una gara perfetta per tutti: a volte capita di riuscire a tirare fuori quel qualcosa in più nel momento giusto. Altre volte ci vai vicino ma non ci riesci, o semplicemente sono più bravi gli altri. Fa parte del gioco e lo devi accettare. Che non significa mandarlo giù a cuor leggero: per esempio resto convinto che la finale dei 200 fosse alla mia portata, ma ho avuto vari problemi e non l’ho raggiunta».
E la staffetta?
«Prendere una medaglia sarebbe stato bello, ci siamo andati vicini, siamo stati bravi. Dico anche che è meglio arrivare quarti che quinti. Certo, sono ancora furibondo, ci metterò anni a digerire il quarto posto e sarà la mia prima motivazione per la nuova stagione».
Quali altre sensazioni si è portato via da Parigi?
«L’amicizia e il divertimento con i compagni, la sofferenza, l’adrenalina nello stadio, l’ essere al centro del mondo, l’affetto delle persone care che erano lì. Mi viene in mente una cosa delle olimpiadi di Tokyo: andai a trovare Marco Spissu in camera sua al villaggio olimpico. Lui si era portato da casa la bandiera dei Quattro mori ed era letteralmente incantato da tutto ciò che avveniva. Il suo orgoglio e il suo attaccamento alla Sardegna mi sono rimasti dentro».
A Parigi i sardi si sono fatti valere. È riuscito a seguire qualcuno di loro?
«Seguo con una certa attenzione un certo Patta… Guardo con trasporto tutte le gare degli italiani, soprattutto quelli con i quali ho rapporti di amicizia, ma quelle dei sardi di più. Sono arrivate medaglie importanti, c’è da essere orgogliosi. Con Lorenzo (Patta, ndr) ne abbiamo parlato: siamo mancati soltanto noi».
Ora testa a Los Angeles 2028?
«Ci sono mille tappe prima di Los Angeles, che ovviamente è un obiettivo. In questi ultimi mesi mi sono riposato, ho fatto qualche viaggio anche a sfondo calcistico, compreso il derby di Atene. Ora ho ripreso a lavorare duro e non c’è bisogno che qualcun altro alzi l’asticella per me. Ho già abbastanza fame per conto mio».
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