Gli sherpa le osservano con un’aria sospesa a metà tra il divertito e il sorpreso. Hanno ricevuto indicazioni precise dalle autorità locali: quelle tre non salgono. Troppo rischioso per tutti. Se ne tornino a casa. In fondo l’Himalaya non è una questione per donne. Quelle tre sarebbero Monica Jackson, Elizabeth Stark ed Evelyn Camrass. Segni particolari: tutte scozzesi, tutte amiche, tutte appassionate di alpinismo. L’anno è il 1955 e la storia che all’epoca genera ostruzionismo e perplessità nasce da un’intuizione della Jackson.
È scozzese, si diceva, ma è nata a Kotagiri, India, nel 1920. I suoi si davano da fare con una piantagione di caffè e lei, tornata in patria, sposata e con due figlie, ha imparato fin da piccola che il mondo è fatto per essere percorso senza timore. Da anni è una scalatrice professionista, nonché socia dello Scottish Climbing Group: si è cimentata con pendenze britanniche, con le catene montuose norvegesi e con le Alpi. Il marito, a dispetto dei tempi, approva e supporta. C’è solo un fatto: Monica punta sempre più in alto. Conquistata una vetta, ne cerca subito un’altra. Solo che quella che ha in mente adesso è gigantesca. Scalare l’Himalaya è un’altra cosa.
Tuttavia condividere un rischio ne attenua la portata. Monica ne parla a Elizabeth, che nella vita fa la logopedista, ma è anche lei una grande appassionata di imprese alquanto verticali. E, clamorosamente, incassa il suo consenso. Il duo diventa presto un trio quando si aggiunge anche la Camrass, una dottoressa di medicina generale che tra un paziente e l’altro contempla le mappe appesa al muro. Ritraggono l’Himalaya.
Così è deciso. La spedizione è composta, si parte nel mese di aprile. Più facile a dirsi che a concretizzare, perché prima c’è da incassare il benestare della Fondazione Everest britannica e dell’Himalayan Club indiano. Il problema è che sono esclusivamente composti da uomini: quando ascoltano la richiesta delle tre scozzesi, ridacchiano e alzano le spalle. “Niente affatto, è troppe pericoloso per tre donne”, ripetono. Ma il gruppo insiste talmente tanto che tutti devono deporre le armi. “E va bene, se ci tenete tanto andate. Fatti vostri”. Monica e le altre sorridono, ma il bello deve ancora venire.
Fanno sosta in India, poi si spostano a Katmandu, in Nepal, il campo base elettivo da cui partire per cimentarsi nell’impresa. Qui frotte di sherpa si grattano la nuca nel vederle. Le autorità locali cercando di dissuaderle e arrivano pure a minacciare le stesse guide: “Non le accompagnate, non fa per loro e rischiate anche voi”. Nulla. La volontà di Jackson, Stark e Camrass è feroce. Salgono su con un bagaglio enorme da 1.800kg, quattro sherpa a rivelare le maggiori insidie e una trentina di portatori.
L’obiettivo fissato in testa? Addentrarsi lungo la catena Jugal Himal, scattare un mucchio di foto, documentare tutto. In due mesi e mezzo di arrampicate il gruppo raggiunge così punti totalmente inesplorati, come il ghiacciaio Phurbal Chyachumbu e una nuova vetta, all’altezza di 6.151 metri: la chiameranno Gyalzen Peak in onore al nome dello sherpa che le conduce. Le tre amiche si guardano: sono la prima spedizione femminile nella storia a raggiungere un traguardo del genere.
Tornate in
patria, vengono accolte come eroine, sciogliendo lo scetticismo iniziale come strati di burro. “È stato difficile?” chiedono i giornalisti. “Oh no, affatto. Come fare una passeggiata“, rispondono divertite.
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