Nord globale contro Sud globale? Gli schieramenti che si confrontano nei negoziati climatici della Cop29 a Baku sono in verità sfaccettati. Anche sulla questione che si preannuncia centrale, la finanza climatica: chi paga, in che modo, quanto e per cosa.
I paesi meno avanzati (Pma, 45 nazioni altamente vulnerabili e al tempo stesso le meno responsabili della crisi climatica) reclamano più finanza climatica, possibilmente non in forma di crediti ma di contributi a fondo perduto. Meglio forse parlare di restituzione internazionale. Una pietra miliare è il Fondo perdite e danni (Fund for Responding to Loss and Damage – Frld), deciso alla Cop27 in Egitto, ma non ancora davvero operativo.
L’Ong Action Aid aveva calcolato che nel 2022 il mondo aveva speso di più in gelati che in contributi al Sud globale per l’azione climatica. Si stima ormai un fabbisogno minimo di 1.000 miliardi nel solo 2025.
I paesi africani insisteranno anch’essi sul Fondo perdite e danni, mentre diverse parti del continente anche di recente hanno subito inondazioni da un lato e ondate di calore e siccità estreme dall’altro. La sede del Fondo sarà nelle Filippine; il blocco africano contesta invece la scelta di Ginevra come sede dell’organo di assistenza tecnica: la città è costosissima.
L’alleanza delle piccole Isole Stato (Aosis), paesi che rischiano l’esistenza stessa, insisterà su due impegni urgenti e indispensabili: l’abbandono completo dei combustibili fossili, senza scappatoie, e i fondi necessari all’azione climatica. Spinge nello stesso senso la variegata High Ambition Coalition (Hac), nata con la Cop21 a Parigi e presieduta dalle Isole Marshall. Ne fanno parte paesi abbienti e paesi impoveriti; ai negoziati degli ultimi anni è stata capace di pressioni importanti.
Le scelte dei 4 Basic – Brasile, Sudafrica, India e Cina, paesi dal rapido sviluppo e molto popolosi – possono avere un impatto enorme nel successo o fallimento degli sforzi climatici. I Basic, come l’Alleanza G77+Cina (che per tradizione comprende le ricche monarchie del Golfo e altri Stati petroliferi), insistono sul principio di «responsabilità comune e differenziata»: le nazioni storicamente più responsabili della concentrazione di gas serra in atmosfera devono fare di più sia in termini di finanza che di obiettivi di riduzione.
Il Brasile ha comunque annunciato di voler ridurre le proprie emissioni del 59%-67% entro il 2035 rispetto al 2005. I Basic criticano la tassazione che l’Ue imporrà dal 2026 sulle importazioni di beni dall’impronta carbonica elevata (compresi acciaio e cemento).
La Cina è ormai al primo posto fra le nazioni sia per emissioni climalteranti che per espansione delle energie rinnovabili. Pur seconda economia mondiale, mantiene lo status di «paese in via di sviluppo» assegnatole al tempo dei primi negoziati sul clima, oltre 30 anni fa. E a questo titolo insiste sul fatto che i paesi di prima industrializzazione devono muoversi per primi e più velocemente e rifiuta di contribuire a fondi globali per la finanza climatica per i paesi impoveriti. Finanzia progetti autonomi, soprattutto in Africa.
Fra le incognite nel futuro degli accordi sul clima ci sono gli Stati uniti, con il loro prossimo presidente. In ogni caso, malgrado i rilevanti investimenti su mitigazione e adattamento durante la presidenza Biden, gli States hanno continuato a essere il principale produttore di petrolio e gas. L’Unione europea, dal canto suo, non ha ancora reso pubblica la propria posizione sui nuovi obiettivi di finanziamento e sulle loro caratteristiche. E chiede alla Cina di contribuire ai fondi globali.
Chissà invece se qualcuno dei gruppi negoziali, o singoli illuminati paesi insisteranno finalmente sulle responsabilità climalteranti del complesso militare industriale e dei conflitti armati, nonché sulla riconversione delle spese militari, arrivate a 2.443 miliardi di dollari nel 2023.
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