C’è un colosso editoriale in Africa, un conglomerato di mezzi di informazione che si pone l’obiettivo di governare presto l’intera informazione del continente: è la Cina. Pechino è entrato prepotentemente nel mondo dell’infotainment africano, investendo enormi budget per controllare media televisivi nazionali e locali, stringendo accordi con giornali e telegiornali per fornire in esclusiva notizie fornite dalle sue agenzie di stampa e producendo documentari che hanno lo scopo di spianare la strada alla narrativa di Xi Jinping. Pechino amministra la media company StarTimes, nelle cui casse ha versato due miliardi di dollari investiti in immobili destinati agli studios e al personale in ben 30 Paesi africani, da dove manda in onda più di 13 milioni di canali digitali per i suoi 20 milioni di abbonati, in aumento. E questo ne fa il secondo operatore di Tv digitale nel continente, dietro solamente all’emittente Dstv del Sudafrica. StarTimes ha una sua personale strategia di penetrazione capillare. Sta installando parabole satellitari in oltre diecimila case rurali (oltre a fornire schermi e impianti fotovoltaici per far funzionare il tutto), che magari non ricevono i canali tradizionali ma grazie ai generosi «piatti» si possono direttamente collegare alla Tv digitale cinese con il loro intrattenimento e la loro informazione.
Nella stessa ottica, compie operazioni per «impossessarsi» anche delle reti televisive istituzionali: esempi sono le joint venture tra StarTimes e la Tanzania Broadcasting Corporation, oppure con la Zambia National Broadcasting Corporation, sulla quale vanta una quota di maggioranza tale per cui è facile immaginare chi detta la linea editoriale.
Altro sistema per ottenere il controllo del mondo dell’informazione in Africa è formare direttamente i giornalisti, per dare loro l’impronta e lo stile che Pechino predilige. Moltissimi giovani africani che aspirano a lavorare nel mondo della comunicazione, oggi passano più che volentieri un lungo periodo di formazione in Cina, durata minima dieci mesi, dove sono istruiti e pagati da enti mediatici legati al governo di Pechino. Merito soprattutto del munifico Forum sulla cooperazione Cina-Africa (Focac) dei cui corsi di formazione beneficiano migliaia di professionisti africani, e non soltanto nel campo del giornalismo. Per dare un ordine di grandezza, solo in Kenya sono 500 tra giornalisti e personale locale i lavoratori attualmente impiegati presso agenzie di stampa cinesi, che inviano in media 1.800 notizie al mese. Le agenzie in questa storia sono centrali: il governo cinese ha stretto centinaia di accordi con giornali e telegiornali africani per fornire loro servizi (di cui hanno molto bisogno) e notizie in esclusiva, grazie a colossi come Xinhua, China Daily, China Radio International e Cgtn (tutte in un modo o nell’altro legate al Consiglio di Stato della Repubblica popolare e al Dipartimento di propaganda del Partito comunista cinese). Xinhua, la più grande agenzia stampa dell’Asia, ha 37 uffici in Africa. Paul Nantulya dell’Africa Center for Strategic Studies, chiarisce l’ordine di misura: «Si tratta di un numero che supera quella di qualsiasi altra agenzia stampa, africana o non africana, e che rappresenta un drammatico aumento rispetto alla manciata di uffici di due decenni fa».
È del tutto evidente che la crescita degli investimenti cinesi nello spazio mediatico africano fa parte di una strategia globale che il Partito comunista dominato da Xi Jinping insegue da tempo; una per la quale l’Africa, insieme alla guida del sistema economico dei Brics che si vorrebbe alternativo all’Occidente e al dollaro, ha lo scopo più che evidente di utilizzare i media per espandere l’influenza nei Paesi in via di sviluppo, colonizzando il loro ambiente informativo.
E oltre all’informazione questo coinvolge anche l’intrattenimento. La citata StarTimes, fondata nel 1988, 5.600 persone impiegate in Cina, aiuta il «soft power» cinese con produzioni milionarie. Come la docuserie di successo Bobby’s Factory del regista Yong Zhang, che racconta la storia del proprietario di una fabbrica cinese in Africa e dei suoi rapporti positivi con i lavoratori locali. Un’altra serie, TaZaRa: A Journey Without an End, si muove sullo sfondo del progetto ferroviario Tanzania-Zambia Railway (da cui il nome Tazara) e ne fa un simbolo della cooperazione Cina-Africa nel segno della Nuova Via della Seta. Altra grande produzione cinematografica è My China Story, dove una serie di noti attori africani racconta le impressioni e le esperienze positive del tempo speso in Cina, offrendo alle nuove generazioni, che consumano prodotti digitali a un ritmo incessante, linguaggi e contenuti tesi a garantire un’immagine favorevole del Dragone. Il Partito comunista applica all’Africa ciò che ha già compiuto in patria: elimina il dissenso inglobando ogni ambito sociale. E in quest’ordine di idee, considera i media come il mezzo più efficace per «raccontare bene la storia della Cina». È un’espressione utilizzata dallo stesso Xi Jinping nel 2013, in occasione della Conferenza nazionale di propaganda e lavoro sull’ideologia del partito. Un’altra, pronunciata da Xi nel febbraio 2016, spiega meglio di Sun Tzu la dottrina da seguire: «Ovunque siano i lettori, ovunque siano gli spettatori, è lì che i resoconti propagandistici devono estendere i loro tentacoli». Perché? Perché i lettori votano.
Secondo il Chinese Loans to Africa Database, si ritiene che tra il 2000 e il 2022 istituzioni finanziarie cinesi abbiano firmato 1.243 contratti di prestito a favore di governi e imprese statali del continente africano, per un valore di circa 170 miliardi di dollari. Quanto la copertura mediatica cinese può aver influenzato la percezione dei popoli africani sui progetti arditi imbastiti nel loro territorio o sui vari candidati politici durante le campagne elettorali? Commenta ancora il ricercatore ed esperto di affari cinesi Paul Nantulya: «Il radicamento dei media del Partito comunista negli ecosistemi mediatici africani rischia di distorcere gli spazi informativi del continente, e quindi l’accesso a un’informazione indipendente che dia forma ai dibattiti dei cittadini su una serie di questioni che vanno dalla governance, alla società, all’economia. Ci si aspetta che le media company sostenute dalla Cina riportino esclusivamente notizie favorevoli sul regime locale e ne amplifichino i progetti e le posizioni politiche. Lo stesso fanno per gli investimenti cinesi, a prescindere dalle perplessità locali che spesso emergono».
La macchina della propaganda, insomma, gira a pieno regime. E lo fa in particolare quando deve magnificare i risultati della Belt and Road Initiative, la Nuova Via della Seta, nonostante il megaprogetto di egemonia commerciale immaginato da Xi Jinping abbia già fatto precipitare nella trappola del debito quei Paesi che sono finiti nella sua traiettoria. Kenya, Gibuti, Angola e Zambia, solo per citarne alcuni, hanno accumulato interessi debitori per progetti infrastrutturali tali che non potranno mai ripagarli, e di conseguenza la Cina viene risarcita con autostrade, porti e aeroporti, che diventano di sua proprietà. Alcune inchieste realizzate da parte della stampa africana – che vanta una notevole storia di giornalismo indipendente le cui radici affondano negli anni Settanta del secolo scorso – sulle autorità cinesi che operano da intermediarie in Africa, sono state più volte oggetto di scandali e denunce, ma liquidate dal governo di Pechino come «campagne diffamatorie orchestrate dai rivali per indebolire i nostri legami diplomatici e le solide partnership economiche con i Paesi africani» come recita in ciclostile Xinhua. I cittadini dei Paesi africani, interpellati da più fonti, non credono affatto al modello del Partito comunista cinese e tantomeno desiderano aderire alla dottrina di Xi Jinping di controllo assoluto del partito sullo Stato, sul governo, sulle forze armate e sulla società. Secondo sondaggi realizzati ancora nel 2024, circa il 71 per cento degli africani preferisce, o meglio aspira, alla democrazia e crede nella stampa indipendente. Fino a quando riusciranno a resistere alla potentissima macchina mediatica di Pechino?
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