La prima al Modernissimo di Bologna: «Mi piaceva affrontate il tema della migrazione non in modo ideologico ma in maniera quasi favolistica. Una volta i migranti eravamo noi»
La prima uscita del nuovo film di Gabriele Salvatores, Napoli-New York con Pierfrancesco Favino, nelle sale italiane da giovedì con 01 Distribution, sarà a Milano. Ma lunedì 18 novembre a Bologna ci sarà una «prima della prima», alla presenza del 74enne regista, alle 19,30 al Modernissimo, che nei prossimi giorni festeggerà il suo primo anno dalla riapertura. Il film, prodotto da Paco Cinematografica con Rai Cinema, segue nel Dopoguerra il viaggio dei piccoli Carmine e Celestina dai vicoli napoletani alle strade della metropoli americana.
Salvatores, come mai ha scelto Bologna per la prima in sala del film?
«Bologna è una città che ho frequentato molto e dove ho tanti amici. Volevo fare un regalo a una città che ama così tanto il cinema, alla Cineteca, a Gian Luca Farinelli, a Giancarlo Basili con cui ho lavorato, al Modernissimo».
Il film è tratto da un soggetto inedito di Federico Fellini e Tullio Pinelli di fine anni ’40. Che cosa l’ha interessata?
«A volte sono le storie che ti vengono a cercare. In questo caso il soggetto era stato scritto da Fellini prima di iniziare a fare il regista e inventare il suo mondo onirico. Sembra più un film di De Sica che di Fellini. Leggendolo ho scoperto che c’erano tanti temi che avevo già affrontato nei miei film, il viaggio di trasformazione, i bambini, la scoperta di un paese nuovo».
Quanto era dettagliato lo scritto originale?
«È quasi un piccolo romanzo, scritto benissimo a livello narrativo. Era stato ideato per un altro regista, poi Fellini aveva deciso di farlo lui ma si era scontrato con la produzione americana che voleva un finale buonista. Così l’ha dimenticato, tanto che non ne parla mai. È una storia classica in tre atti, che però risuona forte ancora oggi».
Per esempio su quale tema?
«Mi piaceva affrontate il tema della migrazione non in modo ideologico ma in maniera quasi favolistica, una favola che però affonda le sue radici nella realtà. Perché ci ricorda che una volta i migranti eravamo noi».
Quale America trovano i due bambini protagonisti?
«C’è l’America che Fellini non aveva mai visto e che aveva solo immaginato. È una scoperta, così ho tenuto la macchina da presa all’altezza dello sguardo dei bambini. Abbiamo girato a Trieste e Rijeka gli esterni con parti fisiche sotto i 5 metri, perché potevano ricordare la New York di quegli anni. Sopra i 5 metri abbiamo usato effetti speciali, come Fellini avrebbe usato il suo Teatro 5 di Cinecittà».
E Napoli, la città in cui lei è nato?
«Napoli è rimasta una città storica. Magari abbiamo dovuto usare gli effetti per cancellare i muri dipinti per festeggiare lo scudetto. È una Napoli di vicoli, stretta e buia, non così attraente. Anche se è una città meravigliosa, che magari si è concessa un po’ troppo ai tanti che l’hanno dominata. È splendente d’oro ma è rossa di sangue e nera di mistero».
Anche stavolta stupisce la sua capacità di lavorare con dei bambini.
«Lavorare con i bambini per certe cose è facile perché, a differenza della tecnica che usano gli attori, loro hanno istinto. L’importante è non costringerli a seguire una tua idea, ma cercare di ricevere da loro cose che arrivano in modo spontaneo ma profondo. Dea Lanzaro e Antonio Guerra sono bravissimi, capaci. Sono napoletani e questo aiuta perché, come diceva Eduardo, Napoli è un teatro a cielo aperto».
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