Dopo quello degli operai metalmeccanici del 18 ottobre, venerdì 25 c’è stato lo sciopero degli addetti alla componentistica per l’automotive. Il bersaglio principale delle due manifestazioni è lo stesso, ossia Stellantis, la società che possiede i marchi Fiat, Alfa Romeo, Lancia e Maserati (ma anche Citroën, Peugeot, Jeep e altri ancora) e che è l’unico grande costruttore di automobili in Italia.
Stellantis sta vivendo un momento di grande difficoltà: a fine settembre ha lanciato un allarme sugli utili, abbassando le previsioni sui risultati del 2024, e nei primi nove mesi dell’anno la sua produzione italiana è calata del 31,7 per cento. La situazione non pare destinata a migliorare: l’output dello stabilimento di Mirafiori (quello della 500 elettrica) è bassissimo e a novembre si fermeranno per diversi giorni i siti di Pomigliano d’Arco, Pratola Serra e Termoli. «Sono irrimediabilmente a rischio la prospettiva industriale e occupazionale», ha dichiarato la Fim-Cisl in un comunicato.
La crisi, in realtà, va oltre l’Italia e oltre Stellantis, e riguarda l’intera industria automobilistica europea. In Germania, per esempio – il primo Paese costruttore di veicoli nell’Unione –, c’è tensione tra il sindacato dei metalmeccanici IG Metall e Volkswagen dopo che quest’ultima ha eliminato le garanzie occupazionali e potrebbe chiudere delle fabbriche all’interno di un piano di riduzione dei costi.
Ma Stellantis è certamente la più sofferente tra le case europee: gli ultimi dati dell’Acea, l’Associazione dei costruttori europei di automobili, dicono che a settembre la società guidata da Carlos Tavares e John Elkann ha immatricolato 120.582 macchine, il ventisette per cento in meno rispetto a un anno fa, il risultato peggiore tra i gruppi che hanno sede nell’Ue. Volkswagen, infatti, è rimasta stabile (+0,3 per cento), Renault ha perso l’1,5 per cento e Mercedes-Benz oltre il sette per cento, mentre Bmw ha guadagnato 7,6 punti.
Lo scenario illustrato dall’Acea è desolante. A settembre le immatricolazioni di auto a benzina sono diminuite del diciotto per cento, le ibride plug-in hanno perso il 22,3 per cento e nemmeno le elettriche possono festeggiare: nonostante il risultato positivo del mese scorso (+9,8 per cento), se si confrontano le vendite dei primi nove mesi del 2024 con lo stesso periodo del 2023 emerge un calo del 5,8 per cento e un restringimento del market share dal quattordici al tredici per cento.
Le vendite di auto elettriche, in particolare, sono importanti non solo ai fini del raggiungimento degli obiettivi comunitari sul clima e della mitigazione del riscaldamento globale, ma anche perché servono ai costruttori per rispettare le nuove regole sulle emissioni di CO2 a livello di gamma: chi sfora i limiti rischia multe miliardarie. Secondo il presidente dell’Acea, Luca de Meo, le regole europee potrebbero costringere le aziende a fermare la produzione di due milioni di vetture, con tutto quello che ne conseguirebbe per l’occupazione.
Tornando a Stellantis, la produzione italiana tra gennaio e settembre è ammontata in tutto a 387.600 veicoli, rispetto alle 567.525 unità dell’anno prima, e nel terzo trimestre tutti gli stabilimenti – anche Pomigliano e Atessa, cioè gli unici due in positivo fino a quel momento – hanno registrato dati negativi. Se le cose continueranno così, come peraltro sembra, secondo la Fim-Cisl la produzione complessiva del 2024 scenderà sotto le cinquecentomila unità, molto meno delle 751.380 circa del 2023.
Durante la recente audizione in parlamento, l’amministratore delegato di Stellantis ha spiegato che è svantaggioso produrre auto in Italia per via del costo dell’energia «molto elevato […], doppio rispetto a quello della Spagna». Ha detto anche che la tecnologia elettrica ha un costo del quaranta per cento superiore a quella endotermica, ma «io devo poter vendere i veicoli elettrici allo stesso prezzo dei veicoli a combustione interna». In sostanza, secondo Tavares bisogna agire sullo stimolo della domanda con «notevoli iniezioni di incentivi, sennò non ce la facciamo». Nel 2024 il governo ha stanziato circa un miliardo di euro per i bonus all’acquisto di veicoli a basse emissioni.
Le parole di Tavares sono state accolte con ostilità da pressoché tutti i partiti, ma secondo l’economista Andrea Giuricin la politica dovrebbe piuttosto lavorare alla costruzione di un ambiente più favorevole alla manifattura. Intervistato dal quotidiano svizzero NZZ, ha ricordato che l’industria automobilistica italiana ha un problema di bassa produttività da trent’anni, che si lega anche agli alti costi della logistica e alla complessità burocratica e che si è manifestato nell’incapacità, per il nostro Paese, di attirare altri costruttori.
La crisi attuale dell’automotive europeo sembra particolarmente spaventosa perché il settore è investito da una profonda rivoluzione tecnologica e deve fare i conti con una concorrenza nuova e agguerrita: quella di Tesla, che è avanti anche nella guida autonoma, e quella dei gruppi cinesi come Byd, che hanno il controllo sulla supply chain delle batterie e difficilmente verranno fermati dai dazi. Questo ciclo di morte e rinascita di un’industria matura, che dal 2035 abbandonerà il motore termico per la propulsione elettrica, crea dunque preoccupazione per i posti di lavoro che rischiano di venire cancellati.
Ogni transizione ha dei vincitori e dei vinti, con professioni che spariscono o si riducono e altre che nascono o prosperano. In Italia c’è una ricca filiera della componentistica che è effettivamente minacciata dal passaggio all’elettrico, visto che le auto a batteria sono meno complesse di quelle a benzina o diesel e richiedono meno parti, specie per quanto riguarda i motori e le trasmissioni.
Al di là delle stime su quanti posti di lavoro si perderanno e quanti verranno creati o riconvertiti, però, i punti su cui riflettere sono tre. Uno: la grande distruttrice (e creatrice) di posti di lavoro è l’automazione industriale. Due: anche ipotizzando una riconversione totale degli occupati della filiera endotermica in quella elettrica, nel breve termine un qualche sconvolgimento sarà inevitabile. Tre: come fa notare un vecchio studio di Transport & Environment sul tema, «il rischio più grande» per il settore automobilistico non è la transizione, ma «che questi veicoli elettrici non vengano prodotti in Europa».
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