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E’ sorto in giurisprudenza un contrasto interpretativo circa l’ammissibilità e la rilevanza della c.d. “usura sopravvenuta”, cioè dell’ipotesi in cui il tasso degli interessi concordato tra mutuante e mutuatario superi, nel corso dello svolgimento del rapporto, la soglia dell’usura come determinata in base alle disposizioni della legge n. 108 del 1996.

La clausola pattizia di determinazione degli interessi stipulata prima dell’entrata in vigore della legge n. 108, o stipulata successivamente per un tasso all’epoca sotto-soglia, può ritenersi valida ed efficace?

Alla domanda risponde la Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, con la sentenza 19 ottobre 2017, n. 24675.

Il caso

La pronuncia è occasionata da una controversia avente ad oggetto un contratto di mutuo decennale stipulato nel 1990, nel quale gli interessi, originariamente pattuiti nell’ambito del tasso soglia, erano risultati usurari a seguito dell’entrata in vigore della l. n. 108 del 1996.

La società mutuataria conveniva in giudizio la banca mutuante al fine di sentir dichiarare la nullità della clausola contrattuale che fissava un tasso di interessi superiore al tasso soglia stabilito dalla legge del 7 marzo del 1996, n. 108 in materia di usura, entrata in vigore nel corso del rapporto. Parte attrice chiedeva, altresì, la condanna della convenuta al rimborso degli interessi già riscossi (con conseguente gratuità del mutuo) o comunque al rimborso delle somme per la parte di tali interessi eccedente il tasso legale o quello ritenuto giusto, nonché la condanna al risarcimento dei danni, anche morali, conseguenti al reato di usura commesso dalla banca che, peraltro, si era rifiutata di rinegoziare il tasso di interessi dopo l’entrata in vigore della legge n. 108.

In primo grado, il Tribunale di Milano accoglieva la domanda e condannava il convenuto al rimborso degli interessi riscossi per la parte eccedente il tasso soglia.

La Corte di Appello, su impugnazione dell’istituto di credito soccombente, riformava integralmente la sentenza pronunciata in primo grado, ritenendo legittima la clausola degli interessi a causa della qualificazione del contratto in termini di mutuo fondiario, ai sensi del d. P. R. 1 gennaio 1976, n. 7 sul credito fondiario, con conseguente inapplicabilità della disciplina recata dalla legge n. 108 del 1996.

La società mutuataria proponeva ricorso per Cassazione. La Prima Sezione con ordinanza interlocutoria del 31 gennaio 2017, n. 2484, dopo aver ricondotto nell’alveo della legge n. 108 del 1996 anche i contratti di mutuo fondiario, rimetteva gli atti al Primo Presidente del Supremo Consesso per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della questione relativa all’incidenza del sistema normativo antiusura rispetto ai contratti stipulati prima della sua entrata in vigore.

La normativa e la sua evoluzione

Ai sensi dell’art. 644 c.p., così come riformato dalla l. n. 108 del 1996, l’ordinamento conosce quattro tipi usura.

Integra usura pecuniaria la dazione di una somma di denaro dietro corrispettivo di interessi o di altri vantaggi. Se la prestazione ha ad oggetto un’altra utilità l’usura è qualificata come reale.

La sproporzione delle prestazioni che qualifica la condotta in termini di usurarietà sussiste in due ipotesi previste dall’art. 644 c.p.

In primo luogo si ha usura cd oggettiva (o in astratto) quando la controprestazione usuraria consista in un interesse eccedente il tasso soglia trimestralmente determinato dal Ministero del Tesoro. Il superamento del tasso soglia determina automanticamente, in ragione di una presunzione iuris et de iure, l’usurarietà degli interessi convenuti. Viceversa, sussiste l’usura cd. soggettiva (o in concreto) nei casi in cui gli interessi, pur non superando il tasso soglia, in concreto determinino una significativa sproporzione tra le prestazioni, avendo riguardo alle modalità del fatto, al tasso medio praticato per operazioni similari nonché alle condizioni di difficoltà economica e finanziaria della vittima.

Assume altresì rilievo la distinzione tra usura originaria e usura sopravvenuta. La prima assume quale decisiva ai fini della valutazione dell’usurarietà degli interessi il solo momento in cui essi sono convenuti. L’usura sopravvenuta, invece, si configura in due ipotesi: quando gli interessi regolarmente pattuiti prima della l. 108 del 1996 si rivelino ex post, per effetto dell’entrata in vigore di detta norma, usurari perché eccedenti rispetto al tasso soglia; in relazione ai contratti, stipulati nella vigenza ed in conformità della l. 108, i cui tassi diventino usurari in executivis per  effetto della caduta dei tassi medi di mercato, che sono alla base del meccanismo legale di determinazione dei tassi usurari in base all’art. 2 della l. 108.

L’usura ha conosciuto alterne vicende di liceità e di criminalizzazione. Pertanto, una corretta analisi della sua disciplina non può prescindere da un breve excursus sulla sua evoluzione normativa.

L’usura manifesta un fenomeno strettamente connesso alle ideologie di fondo ed al modello economico e sociale di un determinato sistema politico. San Tommaso D’Aquino qualificava l’usura un peccato contro la natura, la morte dell’anima (citando Aristotele riferiva ”Nummus non parit nummos” “il denaro non partorisce denari”).

Il divieto di trarre vantaggio dal prestito di denaro affonda le proprie origini in concezioni di carattere etico-solidaristiche che mal si conciliano, invece, con la società commerciale dell’Ottocento a vocazione liberale e di impronta individualistica. Infatti, nell’Italia postunitaria non erano previsti limiti legali per i tassi di interessi. Secondo le teorie economiche liberali di Bentham e Ricardo la fissazione di un limite legale ai tassi d’interesse avrebbe condotto all’esclusione dal circuito dei finanziamenti i soggetti dotati di minore capacità patrimoniale, danneggiando proprio coloro che si intendeva tutelare con la previsione di un contenimento dei tassi.

In conformità alla logica mercantilistica dell’epoca, quindi, la remunerazione dei prestiti di denaro era moralmente consentita ed il divieto penale dell’usura non riceveva menzione nel codice Zanardelli (1889).

Tuttavia, la libertà dei privati condusse ad un incremento smisurato dei tassi di interesse in un contesto socio economico caratterizzato da un’elevata criticità. Il codice Rocco (1930), per contenere tale fenomeno, reintroduceva il reato di usura (art. 644 c.p.) riservando particolare attenzione alla tutela delle situazioni di diseguaglianza sostanziale nell’esplicazione della libertà negoziale. Infatti, la ratio solidaristica e fortemente paternalistica sottesa all’art. 644 c.p., nella sua formulazione originaria, si manifestava nella previsione dello stato di bisogno quale requisito necessario del delitto di usura. In tale periodo storico era considerato usurario, quindi, il comportamento di chi, approfittando dell’altrui stato di bisogno, si faceva dare o promettere interessi o vantaggi usurari come corrispettivo della dazione di denaro o altra cosa mobile.

Il mutato contesto socio economico ed il dilagare dell’usura come strumento agile della criminalità organizzata ha imposto negli anni ‘90 un necessario adeguamento della normativa avvenuto in particolare con le riforme del 1992 e del 1998 che si collocano nel più ampio panorama della lotta alla criminalità organizzata.

La legge cd. antiusura (l. n. 108 del 1996) rappresenta una tappa decisiva dell’evoluzione normativa in materia: in ambito penale, elimina il riferimento all’approfittamento dello stato di bisogno ed ancora il reato di usura a criteri oggettivi di rilevazione del tasso usurario; in materia civile, il comportamento scorretto del creditore è sanzionato più severamente con la perdita per il creditore del diritto alla riscossione degli interessi, in luogo del previgente obbligo di riscossione dei soli interessi ritenuti legali.

L’usura gode, infatti, di una doppia tutela. Le conseguenze, sul piano civilistico, sono disciplinate degli artt. 1448 c.c. (“Azione generale di rescissione per lesione”) e 1815 c.c (“Interessi” in materia di contratto di mutuo). L’istituto della rescissione per lesione rinviene la propria ratio nell’esigenza di reprimere il fenomeno dell’usura. L’esperibilità della relativa azione richiede, tuttavia, la sussistenza (rectius la prova) di due requisiti: da un lato, lo stato di bisogno di una parte di cui l’altra avesse profittato e, dall’altro, la sproporzione tra le prestazioni (la cd. lesione ultra dimidium) consistente nell’eccedenza oltre la metà di una prestazione rispetto all’altra. La prova dello stato di bisogno e del suo profittamento da parte dell’altro contraente incombe gravosamente sul contraente che si pretende leso. Per tali ragioni, è invocata in maniera più frequente la tutela ex art. 1815, comma 2 c.c. che, con riferimento al contratto di mutuo, sancisce la nullità̀ delle clausole relative ad interessi usurari, con conseguente caducazione del diritto del creditore alla riscossione degli interessi (prima della riforma introdotta con l. 108 del 1996, era previsto l’obbligo del mutuatario di corrispondere gli interessi nella misura legale).

Tanto premesso circa l’evoluzione normativa in materia di usura, un’attenta lettura della sentenza in commento richiede, nel dettaglio, un’analisi della disciplina vigente che denota non pochi punti di frizione sui quali il dibattito giurisprudenziale e dottrinario si è concentrato negli ultimi decenni.

L’art 1815 c.c. delinea una forma di invalidità sui generis. Trattasi di una nullità testuale che configura una significativa eccezione alla regola che governa la disciplina della nullità parziale (art. 1419 c.c.).

L’art. 1419 primo comma c.c., infatti, contempla il c.d. effetto espansivo, in virtù del quale la nullità che colpisce una clausola essenziale del contratto importa la nullità dell’intero contratto. La clausola con la quale le parti convengono il tasso di interessi è senza dubbio da considerarsi fondamentale nell’economia del contratto, in quanto rappresentativa della remunerazione (o controprestazione) che spetta alla parte che opera la dazione di denaro. Se si applicasse anche al contratto di mutuo il principio generale, la conseguenza sarebbe la restitutio in pristinum, con restituzione, da parte del debitore, dell’intera somma ricevuta in prestito. Invece, il regime degli interessi ex art. 1815 comma 2 c.c., in omaggio al principio del favor debitoris, cui è informato il nostro ordinamento giuridico, fa salvo il contratto, epurandolo dalla clausola che prevede interessi usurari, ma sanziona la scorrettezza del creditore con l’esonero del debitore dal pagamento di ogni interesse.

In deroga al principio generale della naturale fecondità del denaro, è comminata nei confronti del creditore la sanzione civile più severa che importa la perdita del diritto alla riscossione degli interessi con conseguente gratuità del contratto.

La più attenta dottrina ha osservato come tale sanzione investa i soli casi di usura originaria in quanto imputabile al creditore. L’usura sopravvenuta, invece, è un fenomeno riconducibile all’alea normale, ossia al rischio congenito, che caratterizza l’esecuzione dei rapporti contrattuali di durata. Sarebbe, pertanto, ingiusto traslare nella sfera giuridica del creditore il rischio di una sopravvenienza- in quanto tale a lui non imputabile – per effetto dell’applicazione dell’art. 1815 c.c..

La nullità di cui all’art. 1815 comma 2 c.c. si configura, quindi, come una nullità sopravvenuta, la cui esistenza, invero, è stata negata da autorevole dottrina[i]. Infatti, la categoria della nullità, patologia invalidante originaria per antonomasia, stride con il concetto di invalidità derivante da cause sopravvenute.

I sostenitori della nullità sopravvenuta, al fine di superare le critiche opposte a tale forma di invalidità, hanno creato una figura di nullità produttiva di effetti ex nunc operante, in particolare, nei rapporti di durata e nei contratti a prestazioni differite. Secondo tale tesi, l’effetto ex nunc troverebbe piena giustificazione anche da un punto di vista sistematico.

Nei rapporti di durata, infatti, il legislatore ha escluso l’effetto retroattivo nelle ipotesi in cui gli eventi sopravvenuti incidono sugli effetti del contratto, come si evince dalla disciplina della condizione risolutiva (art. 1360, 2° comma, c.c. ); da quella del recesso unilaterale (art. 1373, 2°comma, c.c.);  da quella della risoluzione per inadempimento (art. 1458 c.c. ) e per eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467 c.c. ).

Tuttavia anche il tentativo di conferire coerenza sistematica alla categoria della nullità sopravvenuta si espone alla basilare obiezione che qualifica la nullità come un vizio genetico del contratto, che investe l’atto e non anche il rapporto. Lo ius superveniens, invece, incide solo sul rapporto e non sull’atto genetico. Dunque, l’invalidità sopravvenuta di un atto conduce ad esiti contradditori in quanto comporta la salvezza degli effetti da esso già spiegati. Di talché un atto sarebbe contemporaneamente valido e invalido. Occorre però tener conto che numerose sono ormai le ipotesi di nullità speciali cui si accompagna la previsione della salvezza degli effetti già prodotti. Pertanto, la nullità non deve essere più rigidamente intesa come assoluta improduttività degli effetti giuridici dell’atto.

Come è stato correttamente puntualizzato dalla dottrina più attenta, la nullità sopravvenuta si può configurare solo allorquando l’atto non abbia ancora prodotto alcuno dei suoi effetti fra le parti[ii]. E’ il caso, quindi, dei negozi con effetti differiti che si sostanziano in una fattispecie complessa a formazione successiva. Ne costituiscono esempi significativi la nullità del testamento a seguito della condanna all’ergastolo (art. 32, 2º comma, c.p., ora modificato dall’art. 119, l. n. 689/1981) o la revocazione del testamento per sopravvenienza di figli (art. 687 c.c.)

Nel caso di contratti di durata – quando le prestazioni sono state già parzialmente eseguite –  piuttosto che di invalidità sopravvenuta occorre parlare di sopravvenuta inefficacia.[iii]

L’inefficacia successiva è, dunque, anch’essa una vicenda causata da fatti sopravvenuti che, a differenza della nullità sopravvenuta, non provocano alcuna alterazione della fattispecie contrattuale (quindi, dell’atto in sé), ma incidono unicamente sulla funzione dell’atto che è quella non solo di produrre effetti ma anche di farli durare.

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La motivazione della sentenza

Il quesito di diritto sottoposto alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione – inerente l’applicabilità dei criteri designati dalla l. 108 del 1996, ai fini dell’individuazione del tasso soglia, ai contratti stipulati prima della sua entrata in vigore – investe, in buona sostanza, la più ampia tematica relativa alla gestione delle sopravvenienze ( in specie, sopravvenienza normativa) in materia contrattuale.

Le sopravvenienze pongono il problema della gestione del rischio da esse ingenerato e della individuazione dei possibili rimedi. Fa da sfondo il contrasto tra due principi fondamentali che presidiano i rapporti tra i privati: da un lato, il principio pacta sunt servanda, che mira a preservare l’intangibilità, quindi, la certezza e la vincolatività del contratto; dall’altro lato, il principio di autoresponsabilità in forza del quale ognuno deve risentire nella propria sfera giuridica delle conseguenze della mancata adozione delle cautele e delle regole di comune prudenza che identificano il contenuto di diligenza esigibile dal soggetto giuridico nei comportamenti adottati nella vita sociale (art. 1227 c.c.).

In particolare, in materia di usura, la gestione del rischio delle sopravvenienze è strettamente correlata alle questioni di diritto intertemporale posti dalla l. 108 del 1996. Infatti, la mancata previsione di una disciplina transitoria ha posto il problema dell’applicabilità della legge cd antiusura anche alle ipotesi di usura sopravvenuta (quindi, ai contratti stipulati prima dell’entrata in vigore della predetta legge ovvero ai contratti stipulati successivamente ad essa i cui tassi, originariamente leciti, siano in executivis divenuti usurari per effetto del ribasso del tasso soglia).

La giurisprudenza di legittimità, in un primo momento, si è orientata in senso favorevole all’applicabilità della l. 108 anche ai contratti pendenti alla sua entrata in vigore con riferimento alle ricadute sul rapporto successive a tale data. Di talché le pronunce della Suprema Corte assumevano il seguente tenore:“La l. 108/1996 che ha modificato l’art. 644 c.p., in difetto di previsione di retroattività, non può operare rispetto ai precedenti contratti di mutuo, pur essendo di immediata applicazione nei relativi rapporti limitatamente alla regolamentazione di effetti ancora in corso” (Cass. Sez. III 02/02/2000, n. 1126).

Il legislatore, ritenendo l’applicazione giurisprudenziale corrente non fedele alla lettera della l. 108/1996, è intervenuto con la norma di interpretazione autentica – avente efficacia retroattiva – di cui all’art. 1, comma 1, d.l. n. 394 del 2000, nella quale è stato chiarito che “Ai fini dell’applicazione dell’articolo 644 del codice penale e dell’articolo 1815, secondo comma, del codice civile, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento”.

La Relazione governativa di accompagnamento del menzionato decreto legge ha chiarito che l’intento del legislatore è stato quello di escludere radicalmente, non soltanto la possibilità di applicare la legge n. 108 del 1996 ai contratti conclusi prima della sua entrata in vigore, ma anche l’ammissibilità dell’ipotesi di usura sopravvenuta, concernente i contratti stipulati dopo tale data.

Esclusa l’applicabilità della l. 108 ai casi di usura cd. sopravvenuta, dunque, il giudizio di usurarietà investe esclusivamente il momento della pattuizione degli interessi (quindi, il tasso soglia vigente al momento della pattuizione degli stessi). Assume pertanto preminenza il profilo volontaristico che conduce all’affermazione della responsabilità dell’agente in base al principio di autoresponsabilità contrattuale prima citato. Rilievo alcuno è riservato, invece, al successivo momento della corresponsione degli interessi anche nelle ipotesi in cui i detti interessi siano divenuti ultra legali.

La norma di interpretazione autentica non è stata immune da critiche. Infatti, è stata sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale la questione di legittimità avente ad oggetto la violazione degli artt. 3, 24, 47 e 77 Cost. La Corte Costituzionale con la sentenza n. 29/2002 ha ritenuto costituzionalmente legittimo ovvero ragionevole la legge di interpretazione autentica ed infatti sancisce che “E’ costituzionalmente legittimo l’art. 1 comma 1 della legge 24/2001, nella parte in cui con norma di effettiva interpretazione autentica che non supera le possibilità semantiche delle disposizioni interpretate, esclude la natura usuraria degli interessi originariamente non usurari che, per effetto della caduta del tasso medio, successivamente superino il limite di legge”.

La declaratoria di legittimità costituzionale della norma di interpretazione autentica non ha tuttavia sopito il dibattito in materia di usura sopravvenuta, ancora vivo, sia in dottrina che in giurisprudenza.

A tal proposito, la sentenza delle Sezioni Unite ripercorre brevemente il contrasto sorto tra due orientamenti delle sezioni semplici della Corte di Cassazione.

Un primo orientamento, fedele alla lettura che il legislatore fornisce della l. 108, ne disconosce l’applicabilità alle ipotesi di usura sopravvenuta.

Un secondo orientamento, viceversa, ha ritenuto applicabile la legge antiusura alle pattuizioni di interessi precedenti alla sua entrata in vigore e ancora in corso.

Quest’ultimo orientamento si fonda su una vasta speculazione dottrinaria secondo cui mentre l’usura originaria è penalmente sanzionata ai sensi dell’art. 644 c.p. e civilmente con la gratuità del mutuo, invece, l’usura sopravvenuta assumerebbe rilevanza esclusivamente come illecito civile. Quest’ultima forma di illiceità è variamente qualificata dalla giurisprudenza in termini di nullità o inefficacia con effetti ex nunc, ma comporta, in ogni caso, la sostituzione automatica della clausola contrattuale ai sensi dell’art 1339 c.c. (secondo taluni con il tasso soglia, secondo altri con il tasso legale).

Secondo questo orientamento, ai fini del giudizio di usurarietà, non si può non riconoscere rilevanza al momento della corresponsione degli interessi (momento funzionale ed esecutivo del contratto).

Dunque, sia in dottrina che in giurisprudenza si è affermato che, anche alla luce dell’interpretazione autentica fornita dal legislatore, sarebbe irragionevole e incongruo sostenere l’obbligo del debitore di corrispondere gli interessi divenuti comunque usurari, per effetto del sopraggiunto ribasso del tasso soglia.

Un primo argomento a sostegno di tale tesi si ricava dalla sentenza n. 9405 del 2017 della Corte di Cassazione che, nell’affermare l’applicabilità del tasso soglia in sostituzione del tasso contrattuale che sia divenuto superiore ad esso, precisa che la legge di interpretazione autentica limita il proprio ambito applicativo agli art. 644 c.p. e art. 1815 comma 2 c.c. Pertanto, la legge n. 24 del 2001 non sembra escludere in via assoluta l’irrilevanza di un’usura sopravvenuta, né si pone come preclusiva della qualificazione in termini di illiceità della condotta di riscossione dei ratei divenuti usurari. Da qui l’idea che l’emanazione della legge n. 24 del 2001 non abbia l’effetto di escludere, a prescindere, l’adeguamento del tasso divenuto usurario a quello massimo consentito dalla legge.

La dottrina riconosce, altresì, rilevanza, ai fini del giudizio di usurarietà, del momento della riscossione dei ratei usurari muovendo da alcuni argomenti forniti dalla disciplina del delitto di usura dettata dal codice penale. L’art. 644 c.p. prevede che la consumazione del reato di usura – che si annovera tra i cd. delitti a “condotta frazionata” o a “consumazione prolungata” – avviene quando l’offesa raggiunge il maggiore livello di gravità, con la conseguenza che le condotte di riscossione dei ratei usurari rinnovano la consumazione del reato, procrastinando il momento di cessazione della condotta criminosa. Inoltre, l’art. 644 ter c.p., al fine di agevolare la repressione del delitto di usura prevede, expressis verbis, che “la prescrizione del reato di usura decorre dal giorno dell’ultima riscossione sia degli interessi che del capitale”, in deroga alla norma generale dettata dall’art. 158 c.p.

La decisione

Le Sezioni Unite aderiscono al primo orientamento esposto. Infatti, il giudice è vincolato in maniera imprescindibile all’interpretazione autentica degli artt. 644 c.p. e 1815 secondo comma c.c., come modificati dalla l. n. 108/1996, imposta dall’art. 1 comma 1 d. l. n. 394/2000 che, peraltro, ha superato il vaglio di legittimità della Corte Costituzionale.

Il Supremo Consesso ritiene destituita di ogni fondamento la tesi che predica l’illiceità, talvolta definita “ortodossa”, degli interessi divenuti in executivis ultra legali che prescinde dalla normativa dettata dagli art. 644 c.p. e 1815 comma 2 c.c.

Infatti, osserva il Supremo consesso che l’art. 644 comma 3 c.p. è la sola disposizione che “contiene il divieto di farsi dare o promettere interessi o altri vantaggi usurari in corrispettivo di una prestazione di denaro o altra utilità”. Anche l’art. 1815 c.c. nel sanzionare l’usura “presuppone una nozione di interessi usurari definita altrove, ossia, di nuovo, nella norma penale integrata da meccanismo previsto dalla l. 108”.

Non esiste, dunque, un giudizio di usurarietà che non si fondi sull’art. 644 c.p.,  la cui applicazione è ancorata alla interpretazione fornita dal legislatore con la legge n. 24 del 2001.

“Sarebbe pertanto impossibile operare la qualificazione di un tasso come usurario senza fare applicazione dell’art. 644 c.p.; ai fini dell’applicazione del quale, però, non può farsi a meno- perché così impone la norma d’interpretazione autentica- di considerare il momento in cui gli interessi sono convenuti, indipendentemente dal momento del loro pagamento”.

Nell’ambito del presente dibattito ha assunto, altresì, particolare rilievo un’argomentazione ulteriore che, sebbene non abbia costituito oggetto specifico di gravame, la Suprema Corte ritiene opportuno trattare per ragioni di completezza e di coerenza motivazionale (par. 3.4.2).

Nella ricerca degli strumenti di tutela di cui il debitore può disporre per ricondurre gli interessi dovuti nella misura legale, infatti, la dottrina dominante, a fronte di una giurisprudenza scettica, ha riconosciuto, specie per i rapporti di durata o per i contratti ad esecuzione differita, un generale dovere di rinegoziazione del contratto a fronte di sopravvenienze incidenti sull’equilibrio sinallagmatico che abbiano causato uno squilibrio significativo tra le prestazioni.

Il dovere di rinegoziazione promana direttamente dal principio di buona fede, declinato in senso oggettivo (o correttezza), che si specifica in obblighi comportamentali a carattere negativo (doveri di lealtà, come ad es. si riscontra negli obblighi informativi e di trasparenza ex artt. 1337 e 1338 c.c.) e positivo (doveri di salvaguardia che impongono alle parti un comportamento collaborativo, soprattutto in sede di esecuzione ex art. 1375 c.c.).

L’affermazione di un generale dovere di salvaguardare l’interesse altrui nei limiti in cui ciò non importi un apprezzabile sacrificio del proprio interesse (cd. principio di solidarietà contrattuale enunciato dal combinato disposto degli artt. 1375 c.c. e 2 Cost.) conduce a ritenere che la condotta del creditore che riscuote interessi divenuti nel corso del rapporto ultra legali non può ragionevolmente essere trattata alla stregua di un post factum non punibile. Infatti, qualora il creditore esercitasse il diritto all’interesse, il suo comportamento sarebbe contrario alla buona fede perché pretenderebbe l’esecuzione di una prestazione oggettivamente sproporzionata. Il debitore viceversa potrebbe paralizzare l’azione di adempimento degli stessi avvalendosi dell’exceptio doli generalis, attraverso cui far vale un’inefficacia ex bona fide della clausola contrattuale relativamente a quella percentuale di interessi eccedenti la soglia consentita.

Le Sezioni unite escludono che la pretesa in sé (in quanto legittima) degli interessi divenuti in executivis usurari possa determinare la violazione del canone di buona fede, concretizzandosi la detta violazione nelle particolari modalità abusive in cui si manifesti l’esercizio del diritto.

“In questo senso può allora affermarsi che, in presenza di particolari modalità o circostanze, anche la pretesa di interessi divenuti superiori al tasso soglia in epoca successiva alla loro pattuizione potrebbe dirsi scorretta ai sensi dell’art. 1375 c.c.”.

Con quest’ultimo passaggio motivazionale la Suprema Corte sembra porre un freno, senza tuttavia delegittimarla, alla tendenza a tratti spasmodica di ricorrere a meccanismi rimediali (in specie manutentivi), dai tratti assai incerti, desumibili dal canone generale della buona fede nonché dal dovere di solidarietà economica e sociale di cui all’art. 2 della Cost.

Conclusioni

Le prime reazioni suscitate dalla sentenza n. 24675 del 19 ottobre 2017 tra gli operatori del diritto ne delineano i tratti di una pronuncia “rivoluzionaria”, “irriverente”, “dall’esito tutt’altro che scontato”.

In questa sede, invece, si ritiene di dover rilevare come la sentenza probabilmente non avrebbe potuto condurre ad esiti differenti. Più che irriverente sembra assumere i tratti propri di una sentenza “a rime obbligate”. Infatti, l’articolato assetto normativo che vanta, tra gli altri, il privilegio di annoverare una norma di interpretazione autentica (l. n. 24/2001) che ne chiarisce la portata, sembra escludere categoricamente l’ammissibilità dell’usura cd. sopravvenuta.

Ciò però non esclude la necessità che il diritto si conformi alle esigenze di giustizia sostanziale e fornisca una risposta alle istanze solidaristiche avanzate sulla base del combinato disposto degli artt. 1375 c.c. e 2 Cost. che propugnano l’intollerabilità della riscossione di interessi che superano la soglia consentita, anche nei casi in cui l’usurarietà risulti sopravvenuta.

Rebus sic stantibus, è senz’altro auspicabile un intervento del legislatore che fornisca al debitore, vittima di usura, un bagaglio di rimedi più ricco. Non è infatti esigibile che una risposta immediata provenga dai banchi della Corte non potendo quest’ultima sostituirsi al potere legislativo.

Tuttavia, indiscussa è la portata dirimente e chiarificatrice dell’intervento delle Sezioni Unite che si prefigge di porre fine ad un dibattitto ventennale. La sentenza reca con sé un grande potenziale, potendo essa sortire l’ulteriore effetto di deflazionare un contenzioso dai numeri assai elevati.

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(Altalex, 20 ottobre 2017. Nota di Daniela Perna)

_______________

[i] TOMMASINI, voce “Nullità”, in Enc. dir., Milano, 899 ss.; ALPA e BESSONE, “Contratti in generale”, Torino, 1992; SCALISI, voce “Inefficacia”, in Enc. dir., 368; GENTILI, “Le invalidità”, in Tratt. dei contratti diretto da Rescigno, “I contratti in generale” a cura di Gabrielli, tomo II, Torino, 1999, 1289).

[ii] SANTORO PASSARELLI, “Dottrine generali del diritto civile”, Napoli, 1983, 250 ss.

[iii] GENTILI, “Le invalidità”, in Tratt. dei contratti diretto da Rescigno; “I contratti in generale”, a cura di Gabrielli, tomo II, Torino, 1999, 1289.

 

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