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Via Scaldasole a Milano e la memoria di Angela uccisa tra le macerie della Seconda guerra mondiale #finsubito prestito immediato


di
Gianni Santucci

L’omicidio del 1954 nella Milano ancora disastrata. Nel vuoto creato dalle bombe oggi c’è un parchetto

Il Circo Massimo è il più enigmatico monumento dell’antica Roma; a confronto, il Colosseo si impone con l’architettura imponente, con la mastodontica struttura di archi di travertino, elevati da terra fin quasi a 50 metri d’altezza. Il Circo Massimo invece è un perimetro, un catino avvallato, solo erba e terra, gli spalti appena immaginabili nei pendii scoscesi verso lo spiazzo centrale, un tempo pista per le gare. È nel confronto che quei due luoghi si illuminano: mentre il Colosseo è un pieno, il Circo Massimo sprigiona la sua potenza evocativa perché è un vuoto. Se si ha la pazienza di cercarli, ogni città custodisce luoghi del genere. Il più dolente vuoto di Milano è in via Scaldasole, tra Porta Ticinese e via Arena, vicino Sant’Eustorgio, adiacente (per coincidenza) ai resti della Milano romana. Oggi ospita un giardino pulito e ordinato, scavato tra i palazzi, affidato alla cura degli abitanti. Milano i vuoti li tollera poco, da sempre li riempie d’edilizia. Quello di via Scaldasole però resiste, e custodisce immagini e voci che risalgono da un pozzo di sofferenza.

Qui era il cuore della «Milano sconosciuta» di Paolo Valera (1850-1926). Scrittore verista e socialista, credeva che la miseria del sottoproletariato urbano andasse raccontata in modo onesto e crudo. Lo ricordò il cronista del Corriere, iniziando un articolo del 22 marzo 1954: «Fra le macerie di quella che fu la Milano di Paolo Valera, in via Scaldasole, alcuni ragazzi che giocavano hanno trovato ieri mattina il cadavere di una donna priva di documenti, assassinata».




















































I vuoti, nel centro di Milano, li aprirono le bombe della Seconda guerra mondiale. Quello di via Scaldasole andrebbe dedicato alla memoria di «Angela Vigo, fu Luigi, di anni 39»: «La macabra scoperta è avvenuta alle 10.25, in uno spiazzo aperto dalle bombe dirompenti, là dove sorgeva undici anni or sono lo stabile contrassegnato col numero 8. Del casamento di allora sopravvive soltanto la parte posteriore, una fetta di costruzione a un piano, orizzontalmente tagliata in due dalla ringhiera sconnessa di un ballatoio. Sotto ci sono alcuni magazzini, sopra abitano poche famiglie di lavoratori: artigiani, operai, venditori ambulanti…».

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Così era il centro di Milano, quasi dieci anni dopo la Liberazione. «L’estremità destra di quella fetta di casamento scampato alle bombe è chiusa in un castello di assi e di tralicci, approssimative opere di puntellamento, che avrebbe forse dovuto essere provvisorio, ma che invece è rimasto… un luogo appartato, appena lambito, la sera, dalle luci di un negozio di vino che apre le sue vetrine nello stabile dirimpetto». 

Via Scaldasole era un budello in un quartiere brulicante di artigiani e straccivendoli, ladri di biciclette, ladri di appartamento, piccoli rapinatori, sfruttatori di donne (il più noto all’epoca lo chiamavano «conte Nello»), scassinatori, soprattutto contrabbandieri: a ogni angolo, c’era un banchetto che vendeva sigarette. Molti diseredati del quartiere non avevano un tetto e si ricoveravano nei due dormitori, uno in via Colletta, l’altro in Marco D’Oggiono. E quella era anche l’esistenza di Angela Vigo.

L’ultima sera della sua vita, sabato 20 marzo 1954, la passò nell’osteria «Scoccimarro», al 104 di corso di Porta Ticinese, un posto dove si mangiava poco e beveva tanto. Era col suo compagno: «Giuseppe Bonacasa fu Enrico, di 43 anni, straccivendolo, pure lui ospite fisso dell’albergo popolare. Un uomo d’aspetto un po’ strano, con una benda nera che gli taglia il viso per coprire un’orbita vuota, come certi tipi di corsari cinematografici». 

Allo stesso tavolo sedevano quattro o cinque amici, «un vecchio suonatore di fisarmonica detto “il toscanino”; poi erano arrivati due giovanotti… Uno era abbastanza conosciuto, “el Peppin”, l’altro era strabico e doveva essere della campagna, perché vestiva di panno grosso, vellutaccio o fustagno, portava gli stivali di gomma e parlava un dialetto strettissimo». Fu lui, dopo aver tracannato troppo vino, che chiese all’Angela di uscire; lei s’alzò e si incamminò verso la casa diroccata di via Scaldasole; tra le macerie, gli chiese mille lire; lui la strangolò e la colpì con un coltello. Tre giorni dopo Candido Fontana, di anni 28, venne arrestato dalla polizia sul posto di lavoro: stava mungendo le vacche in una cascina di Gaggiano.

Era cambiata poco, via Scaldasole, nel 1969. Di fronte alla casa diroccata, al civico 5, c’era una trattoria che ogni tanto veniva chiusa per sfruttamento della prostituzione. Lo scantinato l’avevano invece affittato un gruppetto di anarchici: lo spazio era una sorta di succursale del circolo «Ponte della Ghisolfa». Qui, il 12 dicembre, due ore dopo l’esplosione della bomba in piazza Fontana, arrivarono i poliziotti dell’Ufficio politico. Raccontò in Tribunale l’anarchico Sergio Ardau: «Venni portato via in macchina, mentre il Pinelli fu invitato a seguirci con la sua motoretta». Giuseppe Pinelli, 41 anni, innocente, morì in questura tre giorni dopo.

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