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Perché ancora la pittura. L’esempio virtuoso di “Petrichor” a Caserta #finsubito richiedi mutuo fino 100%


Perché ancora la pittura? È il titolo di una mostra che fu allestita alla Reggia di Caserta a gennaio del 1971. A distanza di più di cinquant’anni la domanda ricorre ancora oggi. Ovviamente nel tempo le risposte cambiano, ma resta la necessità di capire come interpretano la pittura le nuove generazioni, dopo l’espansione del digitale e un’arte che si rapporta sempre più allo spazio. Qual è dunque il ruolo che svolge la pittura in questi anni?

L’arte è ricerca, è sperimentazione, è progresso. Si tratta dunque di mettersi sulle tracce di artisti, di pittori, capaci di esprimere qualcosa di nuovo in quel campo usato e abusato che è la tradizionale tela. E la ricerca porta a risultati sorprendenti. La (nuova) pittura è viva, viva la (nuova) pittura. Ma che può significare “nuova pittura”? È una pittura che si spoglia delle velleità narrative e descrittive, ma anche degli influssi analitici e astratti. È dunque una pittura libera di presentarsi per quello che è, con la sua fisicità, con le sue cromie, il suo essere materia, la sua capacità di generare e divorare immagini. Non storie, dunque, ma quadri.

Un esempio del nuovo corso parte proprio da Caserta, quasi a riprendere il filo di un discorso iniziato più di mezzo secolo fa. La galleria Nicola Pedana ha presentato di recente “Petrichor”, una collettiva di tutta pittura, il cui titolo evoca quell’inconfondibile “odore che inebria la terra asciutta dopo una pioggia inattesa di fine estate”, per riprendere le esatte parole che il curatore Domenico de Chirico ha utilizzato per definire il petricore, un termine greco, da pétrā “macigno, pietra” e ichṓr, “icore, linfa intesa come sangue degli dei”.

L’odore nuovo della pittura, il petricore, è metafora di un ritorno alla natura e di riflessione sui tormenti della modernità. Natura, odori, emozioni sono le linee guida di una collettiva che segna il ritorno di de Chirico all’ombra della Reggia vanvitelliana e la rinnovata collaborazione con il gallerista Nicola Pedana, con cui condivide l’energia dedicata alla promozione, ma anche al consolidamento, di giovani talenti italiani e internazionali.

Cinque gli artisti in esposizione, tutti con lavori recenti: Victoria Kosheleva, Matěj Macháček, Kateřina Ondrušková, Andrea Polichetti e Giacomo Serpani. Giovani se si guarda la carriera, ma maturi per stile e abilità nei temi trattati. La natura, nella sua essenza polimorfica, è il fil rouge tra pittura e scultura e crea un luogo idealizzato, un “locus amoenus”, la cui aria arcadica sa di originalità e di fecondità. Le opere esposte includono diverse tecniche e materiali, rendendo l’esperienza multisensoriale e simbolica.

In mostra si cerca l’odore nuovo della pittura, di quel petricore evocato nel titolo della collettiva. Ma non è piovuto sul bagnato né sull’asciutto. E la pittura ha il suo odore consolidato. Ma le immagini possono evocare odori, questo è sicuro. Possono addirittura evocare allucinazioni olfattive per la loro capacità di suggestionare, di tradire la presunta oggettività della visione. I cinque artisti lo fanno in modi diversi, ma tutti rispettando il demone della pittura.

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First came darkness then the light Victoria Kosheleva

L’arte è infatti quel volubile intermediario che si pone tra gli umani e il divino. E ciò che porta in terra l’Olimpo è proprio la luce. Ebbene, Victoria Kosheleva ricerca l’ultimo fotone nelle pieghe della tela, tra i colori che si lambiscono tra loro, rispettandosi. “First came darkness then the light” il titolo di un suo lavoro. In realtà, c’è sempre un prima e un dopo, l’oscurità e poi la luce.

“Rift in Bark” urla Matěj Macháček. La spaccatura è nella corteccia del mondo. Ed è da lì che penetra una luce che si irradia e si frantuma su tutta la superficie della grande carta intelata. Un paesaggio luminoso esalta una natura innaturale. L’opera è posta sulla parete finale della galleria e irradia tutto lo spazio di un’energia cosmica. Popolazioni cromatiche si rincorrono e si stratificano come in una complessa sinfonia.

C’è tanta natura nei “giardini” di Kateřina Ondrušková. Un universo vegetale si dirama in mille fibre e mille colori, in vortici e girandole, in una costellazione caduta nel microcosmo. La figura umana è una traccia che si mescola e si uniforma al green landscape, sospesa come un pensiero, labile come un ricordo.

Nell’estremo equilibrio ricercato nell’allestimento della collettiva, un’altra opera ha una posizione nodale ed è quella di Andrea Polichetti. La sua scultura in ferro battuto, di una leggerezza estrema, è come un disegno materializzatosi nello spazio. C’è qualcosa di figurativo, di classico in questo “disegno” che fende l’aria. Il rimando è a un’erma contemporanea trafitta in mille modi dalla luce.

Quella di Giacomo Serpani è una figurazione fabulistica, allusiva, graffiante. Racconta personaggi e storie, determina ricordi, profuma di fresco. Ma il tempo è congelato, è fuori dell’accaduto, è esterno alla vita. D’altronde se c’è un qualcosa che è senza tempo è proprio la memoria, capace di ingannare Chronos e di far rivivere ogni evento come una prima volta.





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