La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni – ANSA
Aveva colpito, prima dei toni rialzati ieri con lo scomposto invito del ministro Calderoli alle opposizioni a tacere, l’aplomb con cui la maggioranza ha accolto quella che è invece una sonora sconfitta, ovvero il comunicato della Corte costituzionale che cassa, in attesa del testo della sentenza, ben 7 punti della legge sull’autonomia regionale differenziata. Nessun attacco alle «toghe rosse» e nemmeno ingerenze di miliardari americani. Anzi frasi di giubilo (in primis dallo stesso Calderoli e dal governatore veneto Zaia) per il fatto che la Consulta ha sancito che l’autonomia è costituzionale. Un’ovvietà in fondo, se si tiene conto che questo provvedimento è attuativo dell’articolo 116 e della riforma del centrosinistra datata 2001; e d’altronde anche il presidente Mattarella ha spesso ricordato che la nostra Carta «è autonomista». Anche se non mancano, in un campo in fondo aleatorio come il diritto, giuristi i quali dicono invece che la legge andava annullata del tutto perché sarebbe contraria all’ordinamento della Repubblica. Da parte del centrodestra è parsa comunque quasi un’ammissione che in realtà si temesse di peggio davanti a una legge evidentemente mal concepita da Calderoli, politico non nuovo a imprese simili, tanto da vantarsi con franchezza di aver fatto una legge elettorale (2006) che era «una porcata». E adesso?, è la domanda che si impone. Naturalmente la legge andrà profondamente riscritta, quindi il processo rallenta parecchio nella migliore delle ipotesi, anche se ora si parla di una legge delega. Paradossalmente, poi, l’annuncio fatto dai giudici potrebbe comportare però anche un aspetto di vantaggio per il centrodestra: è presto per avere certezze, ma a giudizio di non pochi (incluso pure il ministro Nordio) il referendum abrogativo ora potrebbe, nel prossimo futuro, essere dichiarato inammissibile dalla Consulta, dato che essa ha sancito che la legge, una volta corretta, è valida. E questo priverebbe le opposizioni della facoltà di azzerare l’intero progetto e, così, di mettere alle corde la maggioranza, che si vedrebbe franare la “riforma-bandiera” della Lega che, in una logica da “simul stabunt simul cadent”, si affianca al premierato voluto da Meloni e alla separazione delle carriere dei magistrati, richiesta da FI. Quanto successo è però la prova che i furori ideologici non servono, pur essendo molto enfatizzati in questi tempi di politica “urlata” e poco ragionata. L’esecutivo non ha voluto ascoltare quelle voci che venivano anche da parti della maggioranza, oltre che dalla società civile (inclusa la Cei), che invitavano a un maggior approfondimento, il che non vuol dire bocciare di per sé l’impianto legislativo. Come sulla questione Albania, dove alla chiarezza normativa – indispensabile in premessa – è stata anteposta l’ostinazione di voler dare “spallate operative”, realizzando subito strutture che per ora si sono tradotte solo in uno spreco di denaro pubblico. I giudici costituzionali hanno sottolineato soprattutto il necessario coinvolgimento del Parlamento nella definizione dei Lep, i livelli essenziali delle prestazioni, e richiamato quel principio di sussidiarietà che deve presiedere al trasferimento alle Regioni di “specifiche funzioni” e non di un così largo spettro di materie (quale senso avrebbe assegnare a esse il commercio estero o l’energia?). Va ricordato inoltre che la creazione stessa delle Regioni (per le quali, nella “lentezza” italica, ci vollero ben 21 anni, fino al 1970) fu voluta nello spirito di rafforzare l’identità nazionale e non di creare un “regionalismo competitivo”, che deve essere semmai un effetto anziché un caposaldo della riforma. Tutti fattori non tenuti in conto dalla maggioranza, nella fretta divisiva di intestarsi un successo che ora non si rivela più tale. Ricordava Aristide Briand, politico francese noto come il precursore degli Stati Uniti d’Europa, che «una delle caratteristiche della nostra democrazia è il correre ciecamente alle riforme». Senza dedicarsi a quel lavorìo di cesello che rende davvero efficaci gli interventi. Adesso sarebbe il caso, incassata la “lezione” dalla Consulta, di prendersi invece tutti gli spazi necessari per tornare sul merito dei punti della legge. Cercando – perché no? – un confronto con le opposizioni, anziché invitarle a tacere. Per vedere, a partire da quei governatori di centrosinistra che fino al 2022 erano aperturisti, se chi diceva di voler fare una riforma autonomista era in buona fede oppure no.
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